Sostenibilità

Il ramificato albero genealogico del mogano

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Scott Paul svela tutte le confuse denominazioni associate a uno dei legni più popolari al mondo

Il mogano è spesso definito il “re dei legni”. Impiegato dai nativi in tutto il Centro e Sud America da tempo immemore, l’albero fu notato dagli europei durante la colonizzazione spagnola delle Americhe e introdotto nel commercio internazionale sin dal 17° secolo. Iniziarono da allora assidue importazioni in Europa e Nord America, per poi espandersi e proseguire tutt’oggi in tutto il mondo. Il mogano venne introdotto nei manici di chitarre con corde in acciaio a inizio Novecento, quando i liutai americani notarono che veniva importato a New York per realizzare stampi in legno per le fonderie d’acciaio e per il mobilio. Data l’abbondanza nella zona, aziende come C.F. Martin pensarono bene di adottarlo come sostituto del cedro spagnolo, grazie anche alle caratteristiche simili. Un secolo più tardi, il mogano resta il legno più utilizzato per i manici di chitarra, e oggi è facile vederlo anche nel fondo, nelle fasce e perfino nelle tavole armoniche.

Squadratura di tronchi di mogano per l’esportazione nell’Honduras britannico (in seguito ribattezzato Belize) negli anni Trenta. (Fonte: Handbook of British Honduras di Monrad Metzgen e Henry Cain)

Una rosa, con qualunque altro nome

Come molti appassionati di chitarra avranno notato, il termine “mogano” viene spesso affiancato da un’ulteriore descrizione, come a foglia larga, dell’Honduras, tropicale, neotropicale, genuino, delle Fiji, indiano, africano o delle Filippine. Questo può creare confusione, soprattutto tenendo presente che alcuni di questi esempi fanno riferimento a specie tassonomicamente non imparentate, ovvero che non sono dello stesso genere. Per farla breve, non sono lo stesso albero. Eppure, hanno lo stesso nome. Perché? Semplicemente perché, sin da quando venne introdotto nei mercati internazionali, il mogano ha mantenuto una popolarità tale che qualunque altro legno che vi assomigliasse o che avesse proprietà fisiche affini veniva commercializzato con questo nome.

Ho comprato bottiglie di spumante vendutomi come “champagne” ma che champagne non era perché l’uva non era prodotta nella regione francese Champagne alla voce “regolamento di denominazione”. Io ne ero totalmente ignaro. Ma, pur rischiando di insultare un’intera nazione, a me andava bene. L’ho stappato per inaugurare il nuovo anno, ha fatto il suo dovere. E, storicamente, lo stesso è accaduto col legno. Ricordiamo che l’umanità ha iniziato a esaminare ecosistemi più ampi o a condurre analisi sulle specie solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, specie ai tropici. Per cui, fino a poco tempo fa, in materia di legni, specie nei tropici, quasi tutti erano totalmente ignari di tutto. E, sempre fino a poco tempo fa, la cosa importava a pochi.

Ma ora la rotta è cambiata. E deve cambiare perché non possiamo più ignorare ciò che ormai è dominio di tutti. La scienza attribuisce dei nomi, descrive e classifica organismi viventi a una velocità esorbitante, sbloccando variazioni comportamentali, genetiche e biochimiche che spiegano come funziona la vita sulla Terra. Sono informazioni importanti, soprattutto in un’epoca in cui otto miliardi di persone divorano le risorse naturali del pianeta a una velocità sempre più allarmante.

Se credi in concetti come lo “sviluppo sostenibile”, allora dovrai convenire sul fatto che è importante comprendere quali specie di alberi tagliamo, commercializziamo e, perché no, adoperiamo per costruire chitarre. Oggi è necessario sviluppare una comprensione più approfondita di quanto ci fosse richiesto qualche tempo fa, e non solo perché è moralmente giusto (e perché ne va della nostra intera sopravvivenza), ma perché la legge lo richiede sempre di più. Ad esempio, come i lettori di Wood&Steel sapranno, c’è un numero sempre crescente di specie di legno commercializzate che vengono annoverate nella CITES, la Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione. Pertanto, come costruttori di chitarre, è importante documentare con precisione quali specie (e quindi generi) di legno importiamo perché servono sempre più tipi di documentazione e regolamentazione.

Per citare Bob Taylor, “Il giorno più facile per acquistare legno per chitarra è oggi, perché domani sarà più difficile.” Bob ha ragione chiaramente, ma io aggiungerei “più difficile, ma non ingestibile”. Come azienda, Taylor Guitars organizza, digitalizza, traccia e monitora il nostro utilizzo del legno come mai prima d’ora. Abbiamo quindi deciso che, d’ora in avanti, ci limiteremo a dire “mogano” quando descriviamo le nostre chitarre terminate, e lasceremo perdere ogni denominazione aggiuntiva.
Capisco che la cosa possa essere controintuitiva. Non ci servivano più specificazioni, anziché meno? Mi spiego meglio.

Che differenza c’è tra specie e genere?

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Un passo indietro

Durante la colonizzazione spagnola delle Americhe, la prima specie di mogano notata dagli europei (Swietenia mahagoni) corrisponde a quella che oggi chiamiamo comunemente mogano cubano. Forse venne osservato per la prima volta a Cuba. Poiché è un albero indigeno della più ampia bioregione caraibica, a volte viene denominato mogano delle Indie Occidentali, ed ecco spiegato il nome. Negli anni a seguire, una seconda specie, quella che oggi chiamiamo mogano a foglia larga (Swietenia macrophylla), fu notata dagli europei sulla terraferma dell’Honduras. Ed ecco spiegato perché molti lo chiamano mogano dell’Honduras, pur essendo una specie che proviene da nord dell’Honduras fino in Messico e da sud dell’Honduras fino al bacino dell’Amazzonia. Ha un’estensione di provenienza davvero considerevole. Il punto è questo: il fatto che ti abbiano detto che la tua chitarra sia di mogano dell’Honduras non significa che il legno provenga effettivamente dall’Honduras.

The historical range of Big-leaf mahogany

La portata storica del mogano a foglia larga nelle Americhe

Tra l’altro, esiste una terza specie di mogano (Swietenia humilis) che si può trovare sulla costa pacifica dell’America Centrale, ma si tratta di un piccolo albero di utilità commerciale ridotta. Quello cubano e quello a foglia larga, invece, devono la loro reputazione di “re dei legni” non a una campagna commerciale. Si formò col tempo grazie alla loro fantastica stabilità e alle incredibili caratteristiche di lavorazione, così tanto apprezzate che per secoli venne introdotta come specie da piantare in tutto il mondo. Lo Swietenia (cubano, ma soprattutto il foglia larga) si trova oggi in luoghi lontani come Australia, Fiji, Filippine, Guam, Hawaii, India, Indonesia, Isole Salomone, Malesia e Sri Lanka. I tentativi di piantarlo nell’Africa tropicale si rivelarono meno efficaci, anche a causa della sua incapacità di difendersi da certi insetti che tendono a depositare le proprie uova sulle foglie nuove, causandone infine la morte.

Bob Taylor davanti a un albero di mogano piantato dagli inglesi nelle Fiji

Ma un attimo. Se lo Swietenia non se l’è cavata nell’Africa occidentale, perché vedo chitarre in mogano africano? La risposta breve è che diverse specie di alberi provenienti dall’Africa occidentale, geneticamente non imparentate, erano abbastanza simili da essere chiamate solo mogano. Il khaya (Khaya ivorensis), sapelli (Entandrophragma cylindricum) e il sipo (Entandrophragma utile) sono esempi di legni comunemente commercializzati col nome di “mogano africano”, benché nessuno di questi sia del genere Swietenia. Questo, di per sé, non implica che il legno produrrà una parte di chitarra di qualità migliore o peggiore. E no, non siete stati ingannati, perché per tantissimo tempo tutti chiamavano questi alberi “mogano africano”. Sono infatti simili sotto vari aspetti, benché i liutai più affermati abbiano delle preferenze particolari per ciascuna specifica parte di chitarra.

Un breve riepilogo

Finora, abbiamo stabilito che “mogano genuino”, ovvero gli alberi del genere Swietenia, sono indigeni delle Americhe e che il cubano e il foglia larga erano talmente popolari che i loro semi vennero piantati in numerosi paesi dei tropici anche al di fuori della loro estensione naturale. Oggi, i manici di chitarre Taylor sono spesso realizzati in mogano genuino piantato alle Fiji, mentre per i nostri fondi e fasce usiamo solitamente del mogano genuino dell’India piantato tempo fa come alberi da viali. Questi alberi crescono generalmente fino a dimensioni maggiori e sono pertanto abbastanza grandi per un fondo tradizionale a due pezzi. Perciò, a pensarci bene, Taylor usa legno urbano da ben prima dell’introduzione del frassino Shamel nel 2020 o dell’eucalipto rosso Ironbark nel 2022. Solo che non avevamo mai pensato di parlarne prima.

Un corpo Taylor in mogano

Abbiamo anche stabilito che diversi altri legni chiamati mogano non sono di fatto “mogano genuino” perché appartengono a un altro genere. Il khaya, il sapelli e il sipo ne sono d’esempio. E ora complichiamoci tutto ancora di più: a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, il mogano genuino (alias Swietenia) è stato piantato nelle Filippine, ma da molto tempo prima esistevano altre specie provenienti dall’Asia sudorientale, appartenenti perlopiù al genere Dipterocarp, commercializzate col nome “mogano delle Filippine”.

Perché questo è rilevante? Per un chitarrista, magari non lo è tanto. L’unica cosa che dovrebbe importare è se la chitarra piace a prescindere dall’accostamento di legni usati per costruirla. Imbracciala e suonala. Ti piace? Non pensare a come ti è stata venduta. Per un produttore di chitarre, d’altro canto, o per un importatore di legno, la questione conta sia da un punto di vista etico che legale, viste le richieste sempre più intransigenti.

Sempre più regolamentazioni

Verso la fine del 20° secolo, con l’estensione naturale del mogano in Centro e Sud America notevolmente ridotta, la CITES, ovvero il trattato multilaterale sopracitato che protegge le piante e gli animali dai livelli insostenibili del commercio internazionale, ha iniziato a prestare attenzione. Inizialmente, il concetto di annoverare una specie di legno così tanto commercializzato fu controverso. Dopo svariati vani tentativi, la Costa Rica, poi la Bolivia, il Brasile e il Messico hanno scelto unilateralmente di includere le loro popolazioni di mogano a foglia larga nella meno problematica Appendice III. Francamente, per una mossa simile, pochi se non nessuno nel settore privato doveva farci particolare attenzione. Ma tutto cambiò nel 2002 quando, dopo una campagna ad alto profilo mossa da Greenpeace, la CITES votò di spostare le “popolazioni neotropicali di Swietenia macrophylla” nell’Appendice II, richiedendo maggiori livelli di trasparenza e documentazione per i governi e per il settore privato.

La storia del mogano e della CITES è di grande aiuto per due motivi. Segnala una prima pietra miliare per maggiori livelli di protezione delle specie di legno prezioso commerciate, e spiega anche come il termine “neotropicale” sia entrato nel lessico dei produttori di chitarre. “Neotropicale” denota una zona zoogeografica del Nord, Centro e Sud America, a sud del tropico del Cancro. La distinzione neotropicale è importante perché la CITES ha deciso di escludere le piantagioni di Swietenia, anche se naturalizzate, introdotte in luoghi quali Bangladesh, Fiji, Filippine, India e Indonesia, che al tempo erano grossi esportatori di legname piantato. Di pari importanza, specie comunemente note come “mogano” ma che non erano del genere Swietenia, tra cui khaya e sapelli, non sono state considerate.

La nuova normalità

Dall’introduzione delle popolazioni neotropicali di mogano a foglia larga nell’Appendice II nel 2002, sono state aggiunte anche varie altre specie di alberi, tra cui vari legni per strumenti musicali. Nel 2017 è stato incluso nell’Appendice II l’intero genere Dalbergia (palissandro); nel 2022, uno dei cosiddetti mogani africani, il khaya (Khaya ivorensis). Il pernambuco (Paubrasilia echinata), usato per archetti di strumenti a corda come violini e violoncelli, è stato inizialmente incluso nel 2007 ed emendato nel 2022. Non è chiaro quale sarà la prossima specie di legno commercializzato inclusa, ma è chiaro che ce ne saranno varie. E tra queste, di sicuro ci saranno legni per strumenti.

Taylor Guitars continuerà a seguire il processo della CITES e monitorerà le modifiche alle legislazioni nazionali ed estere. Il mondo sta cambiando, e noi dobbiamo fare lo stesso. Come ho detto prima, organizziamo, digitalizziamo, tracciamo e monitoriamo come mai prima d’ora. E parte di questo processo implica muoversi in modo più ponderato, più coerente, circa i legni che usiamo. Perciò, d’ora in avanti, quando si tratta di mogano genuino del genere Swietenia, noi lo chiameremo solo mogano, sia esso cresciuto nel suo territorio indigeno nelle Americhe o sia stato piantato altrove parecchio tempo fa. Il sapelli continueremo a chiamarlo sapelli anche se, quando lo introducemmo nel 1998 nella nostra serie 300, per un po’ lo chiamammo “mogano africano”. Detto questo, niente paura. Dietro quel numero seriale, noi esaminiamo tutto nel minimo dettaglio.

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Siamo tornati in Camerun: aggiornamento sull’Ebony Project

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Sostenibilità

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Scott Paul ripercorre la storia del binomio musicisti e ambientalismo, e parla con Ed Robertson dei Barenaked Ladies dell’impegno ambientale della band.

A giugno, i Barenaked Ladies hanno fatto tappa a San Diego in occasione del loro tour “Last Summer on Earth” e io ero interessato al concerto. La fortuna ha voluto che venissi a sapere che REVERB, un’associazione no-profit che collabora con musicisti, festival e locali per rendere più ecologici gli eventi e coinvolgere i fan, aveva contattato Tim Godwin, che dirige il team di Taylor per le relazioni con gli artisti, per la donazione di una chitarra. Io non ne sapevo nulla, ma pare che negli ultimi tour dei BNL, Taylor avesse donato una GS Mini che sarebbe stata autografata dalla band e messa in palio per sostenere gli sforzi di REVERB.

Conoscevo REVERB da tempo, ma non avevo mai avuto l’opportunità di interagire con loro. Influenzata in parte dall’organizzazione no-profit Green Highway di Bonnie Raitt, REVERB è nata nel 2004 quando l’ambientalista Lauren Sullivan e suo marito, Adam Gardner della band Guster, l’hanno fondata per affrontare il problema dell’impatto ambientale delle band in tour. Guster, BNL e Dave Matthews Band sono stati i primi ad abbracciare l’iniziativa. (Per saperne di più su come hanno iniziato, leggi qui).

Un giorno ero con Tim Godwin, e mi ha consigliato di richiedere un’intervista a Ed Robertson, cantante, chitarrista e autore di BNL, per parlare di “sostenibilità”. Non avevo mai incontrato Ed, ma suona Taylor da parecchio ed è un vecchio amico di Taylor Guitars, in più conoscevo bene la reputazione green della band. Tim mi ha messo in contatto con Ed e, in men che non si dica, era già tutto organizzato. Con l’avvicinarsi della data del concerto, però, ho iniziato ad agitarmi un po’. Sono molto a mio agio quando mi intervistano, ma non avevo mai avuto la responsabilità di intervistare. Così ho iniziato a documentarmi un po’ di più su Ed, sulla band e in generale su come i musicisti, nella storia, abbiano usato la loro arte e i loro mezzi per sostenere le questioni ambientali.

Già prima della “Summer of Love”

Non è certo una sorpresa che il legame tra musica e ambientalismo abbia iniziato a consolidarsi negli anni Sessanta. Nel 1962, Rachel Carson pubblicò Primavera silenziosa, che documentava i danni ambientali causati dall’uso selvaggio di pesticidi. Questo libro è comunemente considerato il catalizzatore del movimento ambientalista moderno. God Bless the Grass di Pete Seeger del 1966, invece, è spesso definito il primo album ambientalista della storia. I proventi del brano “My Dirty Stream” sostenevano le iniziative di tutela ambientale del fiume Hudson. Non è un caso che questo periodo sia costellato di esempi di attivismo ambientale, perché fu un’epoca di notevoli sconvolgimenti sociali, tra l’emergere della controcultura e il raggiungimento di un punto di svolta nella musica popolare stessa, che si rifletteva nel folk-rock, nella British Invasion e nella Motown. Nel 1970, a Vancouver, si tenne il concerto Amchitka con Joni Mitchell, James Taylor e Phil Ochs. Questo evento è ritenuto il primo concerto di beneficenza per l’ambiente, e raccolse quasi 20.000 dollari per quella che sarebbe diventata la prima protesta ad azione diretta di Greenpeace.

God Bless the Grass di Pete Seeger del 1966 è spesso definito il primo album ambientalista della storia.

Passando per MTV

Tutta questa storia mi ha fatto pensare alla musica che ascoltavo da piccolo, e alle volte in cui i messaggi di un artista mi toccavano nel profondo. In questo modo rivelerò sicuramente la mia età e la mia formazione, ma ho pensato subito al tormentone dei Midnight Oil del 1987, “Beds Are Burning”, sui diritti della terra degli aborigeni, che è diventato un vero e proprio inno per gli attivisti ambientali come me. Una volta i Midnight Oil si esibirono in un concerto nel bel mezzo di una discarica sull’isola di Vancouver. Poi, il frontman della band, Peter Garrett, divenne persino presidente della Australian Conservation Foundation, membro del consiglio di amministrazione di Greenpeace e ministro dell’Ambiente e delle Arti.

Gli attivisti ambientali di una certa età ricorderanno sicuramente anche la storia di Sting e della foresta pluviale. Negli anni ‘80, il gruppo rock britannico The Police era sul tetto del mondo e MTV dominava la TV. Un giorno, il cantautore e bassista della band, Sting, visitò l’Amazzonia brasiliana e promise di aiutare il popolo Kayapó a ottenere i diritti legali sulla propria terra d’origine. In breve, Sting cofondò la Rainforest Foundation (in seguito ribattezzata Rainforest Fund), sensibilizzando la popolazione e raccogliendo risorse che sono culminate nel riconoscimento ufficiale delle terre Kayapó da parte del governo brasiliano nel 1992, forse non a caso lo stesso anno in cui il Brasile ospitò il Summit della Terra delle Nazioni Unite. Avendo visitato io stesso le terre Kayapó anni dopo, so che il beneficio che ne è derivato è notevole. Il Rainforest Fund continua ancora oggi a collaborare con le comunità indigene in circa 300 progetti pluriennali in oltre 20 Paesi.

Maná

Dopo ulteriori riflessioni, un altro esempio che mi è venuto in mente è quello della leggendaria band messicana Maná. Non avevo mai sentito la loro musica prima del 1997, quando uscì Sueños Liquidos. Al tempo, lavoravo da Greenpeace a Washington, DC, e un rappresentante della band ci contattò per chiedere che ci presentassimo a un loro concerto nel tour negli Stati Uniti. La band, al tempo, aveva da poco creato la fondazione Selva Negra Ecological Foundation, attiva ancora oggi, che si occupa della tutela dell’ambiente e dello sviluppo delle comunità in Messico. Dopo qualche concerto, ho avuto l’opportunità di passare del tempo con Fher, il cantante, e non dimenticherò mai quanto avesse a cuore la questione ambientale. Lo osservavo sul palco, con la folla che pendeva dalle sue labbra, mentre ne parlava. I suoi discorsi venivano dal cuore. Erano davvero toccanti. Sono un grande fan di Fher e della musica della sua band ancora oggi.

Le ultime tendenze

Esistono tantissimi esempi oggi di musicisti come Jack Johnson, Ben Harper e Jewel (tanto per citare qualche amante di Taylor) che si impegnano per ciò in cui credono. E più mi interessavo al binomio musica e ambiente, più trovavo informazioni interessanti in diversi generi. I testi di artisti come il rapper Xiuhtezcatl Tonatiuh Martinez e l’artista hip hop Childish Gambino spesso menzionano il cambiamento climatico. “All the Good Girls Go to Hell” di Billie Eilish e “The Greatest” di Lana Del Rey parlano degli incendi alimentati dal cambiamento climatico che sempre più spesso investono la California. “Despite Repeated Warnings” dell’album Egypt Station di Paul McCartney e “Green is Blue”, Colorado, di Neil Young sono esempi concreti della frustrazione di questi artisti in merito all’inazione ambientale. Will.I.Am, Miley Cyrus, Imagine Dragons, Lonnie Rashid Lynn (alias Common), Weyes Blood e The Weather Station hanno tutti affrontato questo tema nella loro musica.

Un tipo di ecoturismo differente

Di recente ho incontrato Ian Tellam, un londinese, ormai cittadino acquisito di Amsterdam. Un tempo era un musicista che suonava a spasso per l’Europa, ma poi si è fermato per studiare scienze ambientali. Ora ha unito le sue passioni per concentrarsi sulla sostenibilità nell’industria musicale con la sua società ECOTUNES. Io e Ian avevamo già avuto occasione di chiacchierare in passato e ci siamo ritrovati a riflettere insieme sull’impatto dell’industria musicale sull’ambiente. Ian mi ha fatto scoprire cose davvero interessanti che stanno accadendo in Europa: basti pensare che due band come Coldplay e Massive Attack hanno iniziato a occuparsi di baseline, monitoraggio e riduzione dell’impronta di carbonio nei loro tour in collaborazione, ad esempio, con i ricercatori del Tyndall Centre for Climate Change Research dell’Università di Manchester. A mia volta, ho raccontato a Ian della campagna Music Climate Revolution di REVERB, che ha raccolto oltre 5 milioni di dollari per progetti climatici che riducono in modo significativo l’inquinamento da gas serra, e del più recente Music Decarbonization Project di REVERB, che ha contribuito a sostituire i generatori alimentati a diesel con sistemi di batterie intelligenti a energia solare al Luck Reunion Festival di Willie Nelson.

La fusion si fa sostenibile

Più di recente, ho notato l’emergere di un movimento all’avanguardia, una sorta di fusione tra musica, arte e impegno ambientale. Per esempio, il Climate Music Project di San Francisco mette in contatto le persone con la scienza e l’attivismo ambientale attraverso il potere emotivo della musica e fonde arte e scienza in un’esperienza musicale e visiva, capace di educare e motivare. E ovviamente quando si parla di combinare arte e scienza tramite la musica, non si può non menzionare il brano di protesta ambientale dell’artista concettuale e musicista Beatie Wolfe, “From Green To Red”, al contempo bello e inquietante, che utilizza 800.000 anni di dati sul clima per mostrare l’aumento del livello di CO2. L’opera di Beatie è stata presentata a livello internazionale alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021, al Summit dei Premi Nobel e al South by Southwest.

Parliamone

E tutto questo discorso mi riporta a Ed Robertson dei Barenaked Ladies, che è stato così gentile da sedersi con me prima del concerto di San Diego e parlarmi del suo impegno ambientale in un’intervista che abbiamo ripreso. Mentre guardavo il primo montaggio del video con Tim Godwin, ci è venuta l’idea di creare una serie di conversazioni con altri artisti impegnati in diverse cause ambientali o sociali.

Anche se l’idea era un po’ impegnativa, mi sono reso conto che, come direbbe Liam Neeson: “Io possiedo delle capacità molto particolari…” che potrebbero fare comodo. Prima di entrare in Taylor, infatti, sono stato per moltissimi anni attivista e specialista di politica forestale, e ho anche trascorso 14 anni in Greenpeace. Sono la prima persona in oltre un secolo a essere stata condannata per “sailormongering” (occupazione indebita di una nave), come parte di una campagna che alla fine ha ottenuto che il mogano a foglia larga fosse inserito nella CITES (la Convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche a rischio di estinzione). Davvero, cercate su Google. Ho lavorato come guardiaparco in Costa Rica e come tirocinante presso l’Ufficio per le politiche ambientali della Casa Bianca. Ho parlato davanti all’ONU e sono stato consulente di ONG nelle delegazioni statunitensi alle conferenze delle Nazioni Unite. Sono stato eletto in diversi consigli di amministrazione e ho visitato foreste in tutto il mondo. E diciamo che ho anche letto più di qualche libro su questi temi. Quindi, perché non io? In fondo parlo sempre di “sostenibilità” con le persone.

Quindi, ecco, spero che apprezzerete la mia conversazione con Ed, non vedo l’ora di ripetere quest’esperienza con altri artisti in futuro e condividerla con voi. Se seguite degli artisti che stanno intraprendendo delle iniziative interessanti in ambito ambientale, ci farebbe molto piacere saperlo.

  • 2023 Edizione 2 /
  • Siamo tornati in Camerun: aggiornamento sull’Ebony Project
Header image of staff from Taylor Guitars and the Crelicam mill in Cameroon standing around a sign for the Ebony Project in French

Sostenibilità

Siamo tornati in Camerun: aggiornamento sull’Ebony Project

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Four years after their last trip to Cameroon, Scott Paul and Bob Taylor returned and saw firsthand the promising growth of the Ebony Project.

It had been four years since I last visited Cameroon. As part of my responsibilities under the Taylor Guitars Ebony Project, I used to go regularly to meet with team members at The Congo Basin Institute and to visit project sites where participating villages plant ebony and fruit trees. It was also a chance to get caught up on the latest scientific research being conducted by Dr. Vincent Deblauwe and his team. As readers of Wood&Steel may recall, the Ebony Project was launched in 2016 with the objective of conducting basic ecological research and planting ebony and fruit trees. If you’re interested in the details, annual progress reports can be found at crelicam.com/resources.

After achieving our original goal of planting 15,000 ebony trees in 2021, the project established new goals of planting an additional 30,000 ebony and 25,000 fruit trees by the end of 2026. To date, Bob Taylor has personally paid for almost all of it. Others have contributed, and Taylor Guitars provides a lot of in-kind support.

On March 19, 2020, just as Bob and I were preparing for a spring trip to Cameroon, everyone at the factory here in El Cajon was unexpectedly told to go home. COVID-19 had come to San Diego, and trips to Cameroon — trips anywhere — were off the table. Three years later, this past February, Bob and I finally made the trip back. In the lead-up to going, however, I found it hard to wrap my head around the fact that I hadn’t visited since April 2019. The pandemic really did play with my perception of time. But now that I’m home, having visited and returned, it all makes sense. The project has grown, and seeing the change seemed to put time in context. So, I thought it was a good opportunity to provide a project update.

Joining us on the trip was Cameroonian-American singer-songwriter, guitarist and actress, Andy Allo. Andy, the daughter of a well-respected ecologist, was born and raised in Cameroon but left when she was thirteen years old. She had not returned since. As fate (and talent and hard work) would have it, Andy grew up to play guitar in Prince’s band the New Power Generation. She’s put out several solo records and is currently an actor on the T.V. show Chicago Fire, the Amazon series Upload and Star Wars: The Bad Batch on Disney+. Andy plays a Taylor, and when she wanted to learn more about what we’re doing in Cameroon, our Director of Artist Relations, Tim Godwin, and I drove up to L.A. to have lunch with her. By the time the check arrived, she was fully committed to joining us on our next trip. Yes, she’s awesome.

Fast Forward

I met Andy at the airport in Paris, where we both connected for a flight to Yaoundé, Cameroon’s capital, that would arrive that evening. Bob had traveled a few days earlier to spend some time at the Crelicam mill. He and the mill’s director, Matthew LeBreton, met us coming out of baggage claim. It was midnight by the time Andy and I stepped into the humid tropical air. Andy, having grown up in Cameroon, acclimated with ease, but I was born and raised in Massachusetts, and my body will never get used to it. I began to sweat. I was back in Cameroon. 

In 2022 alone, 6,372 ebony trees were planted across all project sites, bringing our total to 27,810.

A few days later Bob, Andy and I joined Dr. Vincent Deblauwe and his team for the long drive to Somalomo, where the Congo Basin Institute has a research station just steps from the Dja River, the other side of which was the Dja Forest Reserve, a UNESCO World Heritage Site established in 1987. There are now six villages along the road that leads to Somalomo that participate in the Ebony Project. There were only three the last time I visited. Additionally, there are now also another two on the far side of the Dja Reserve, bringing our total to nine (including Ekombite, a village closer to Yaoundé). I would visit these two new villages on a separate trip a week later, but for now, I was focused on where I was, a place I had been several times before. Quite frankly, I was shocked by how much the project had grown.

In 2022 alone, 6,372 ebony trees were planted across all project sites, bringing our total to 27,810. The project also planted 5,402 fruit trees last year. On this day, village nurseries were flush with young ebony and fruit trees ready to be planted in a few months when the rains came. Villagers expertly demonstrated their fruit tree grafting skills, a horticultural technique practiced for centuries to propagate plants but introduced to the project villages only a few years ago. Several of the fruit trees planted at the beginning of the project were now bearing fruit and feeding people. The promise of hundreds more was on the horizon, perhaps only a few years away. Several of the ebony trees that I saw planted years ago were now as tall as I was, some taller. We hear repeatedly from every project participant that the planting of ebony helps clarify local land tenure.

While land ownership in Cameroon is complex, there may be grounds for program participants to have their individual ownership of the trees they plant recognized by the national government. This year, the Ebony Project fully implemented sylvicultural booklets across all of the project sites to help document who planted what, where and when. While these booklets themselves do not provide land tenure, they do contribute evidence for both local/customary ownership and formal recognition.

A Moment of Reflection

Taken in its entirety, our visit to these six villages was extremely rewarding. Four years had indeed passed. It was clear to me. But for me personally, it was most rewarding to see Bob’s reaction. Bob has been to Cameroon countless times over the past 11 years and spent hundreds of hours at the Crelicam mill in Yaoundé. But this was his first opportunity to visit the Ebony Project field sites, and what was once theoretical was now unfolding right in front of us. He had paid the lion’s share to make it happen, and you would have to be made of stone to not be moved by what we were seeing.

Wash, Rinse, Repeat

A few days later, we were all back in Yaoundé. Time for showers and laundry. Bob prepared to return to San Diego. Andy had a few more days that she would spend visiting childhood places and friends, and connecting with the local music and arts scene. Meanwhile, I prepared for a trip to the new project area in and around Zoebefam, southeast of the Dja Reserve. The project wasn’t active in this area the last time I was here, but one village was already in its third year of planting; another was on its second.

Several of the ebony trees that I saw planted years ago were now as tall as I was, some taller.

On this trip, I was joined by Virginia Zaunbrecher from UCLA. Since the Ebony Project’s inception, Virginia and I speak regularly. She and I are the major points of communication between Taylor Guitars and UCLA, who oversees the Congo Basin Institute. Vincent, of course, came along. And so did his three project managers: Jean Michel Takuo, Zach Emanda and Josiane Kwimi, three Cameroonians who each have a degree in agroforestry. They, too, were new to the project since my last visit, but they each now seemed like old hands, and I was looking forward to spending time with them in what promised to be a quieter, more intimate setting than the trip a few days earlier.

Upon arrival to the new project area, I was struck by how different it was. And how much it was the same. It’s hard to explain. The region felt more forested. Fewer people from the outside visit here. Fewer international projects have worked here. But in many ways, it reminded me of being in the Somalomo region five years earlier when the project was first being introduced. It was inspiring, yet felt tenuous. I could only hope that in five years, the project would take root and grow in a similar fashion to the villages around Somalomo. But I knew that each region, each village, presents unique challenges. Some villages are Bantu, and some are Baka. This brings politics that I myself am just beginning to understand but that, thankfully, are understood by the project team. Some villages have active participation from multiple members of the community; others have a small handful of champions doing the work. Each village has varying degrees of challenges with food insecurity, access to fresh water, healthcare and education.

We slept in tents and cooked over the fire. At night and in the car rides to and from the villages, the team and I talked about the Ebony Project — what was working, what was needed, and the pending challenges of expanding to new villages. After several years of negotiations and waiting (and more negotiations and waiting), the first allotment of a $1 million, 5-year project grant from the Global Environmental Facility (GEF) would soon be released, and with it the Ebony Project will expand to three more villages. But which villages? And where? Should we expand along the road near Somalomo on the northwest side of the Dja Reserve, or were there opportunities to consolidate our foothold and grow on the southeast side near Zoebefam? Should we attempt to open a new project cluster on the eastern edge of the Dja Reserve near Lomié? There were pros and cons for each option with financial, logistical and staff capacity considerations. There was a lot to learn. A lot to think about. I was grateful to have such a talented team at the Congo Basin Institute to work with.

When I returned to Yaoundé a few days later, Bob and Andy had left. The house was empty. Vincent, Matthew, Virginia, Jean Michel and I met with representatives of the Cameroonian Government, the GEF and the World Wildlife Fund about the soon-to-be-released funds and our plans to expand the project. Over the next few months, the team will have to figure it out. But I am confident.

The project’s slow, methodical growth has been our secret sauce, a reflection of the flexible and adaptive philosophy of Bob Taylor.

The project’s slow, methodical growth has been our secret sauce, a reflection of the flexible and adaptive philosophy of our primary funder, Bob Taylor, who brought a business-centric start-up mentality that has been critical to our success. It was the same approach he and Kurt Listug used to build Taylor Guitars. Simply put, when something was not working, it was discussed and revised. When something was overly complicated, it was simplified. Despite the considerable strings attached to receiving funds from a large multilateral institution like the GEF, I am confident. Learning this new bureaucratic dance will make us stronger and hopefully prepare us to expand again more dramatically years from now. But for now, our goal is to plant an additional 30,000 ebony and 25,000 fruit trees by the end of 2026, and to expand to three more villages. Vincent will soon release a new peer-reviewed original scientific research paper that I hope to talk about in the months to come. And I have a feeling that we have not seen the last of Andy Allo in connection with the Ebony Project.

In 2021, I wrote an article in Wood&Steel titled “The Ebony Project: Growing Into Phase 2.” In it, I dreamed of a day when the Ebony Project would expand beyond the Dja Reserve, across all of southern Cameroon, and one day, further still into a region referred to as the Tridom, a vast area that includes portions of southern Cameroon, Gabon and a bit of the Central African Republic. I still have this dream, albeit with a slightly more realistic understanding of what it would take. But it can be done. The plan is working. The team is small but excellent. And that, I still hope, will be the subject of a future edition of Wood&Steel.

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Scorri verso il basso

Dopo aver partecipato alla conferenza internazionale presso la convention CITES a Panama, Scott Paul illustra come il crescente focus sulle specie di alberi potrebbe rivoluzionare il futuro degli strumenti musicali.

A metà novembre 2022, io e Bob Taylor abbiamo raggiunto Panama City, capitale di Panama, per partecipare al 19° incontro della Conferenza delle Parti (nota con l’acronimo inglese CoP) presso la convention CITES, tenutasi dal 14 al 25 novembre. Ho già parlato in passato della CITES, che sta per Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora (convenzione sul commercio sul commercio internazionale delle specie di flora e di fauna). La conferenza, organizzata circa ogni tre anni sin dal 1976, fu fondata per far sì che il commercio internazionale non influenzasse negativamente le specie animali e vegetali. Taylor Guitars partecipa agli incontri CITES regolarmente sin dal 2016, più o meno lo stesso anno del focus incentrato sulle specie di alberi.

Tolte poche eccezioni, il settore di strumenti musicali produce solo una minuscola parte del volume totale di specie di legni commerciate internazionalmente, ma le nuove politiche e le nuove restrizioni concordate alla CITES si ripercuotono su ogni utente, piccolo o grande che sia. Inoltre, pare che nessun prodotto di legno terminato varchi i confini internazionali più spesso degli strumenti musicali, ed è alla luce di questo che riteniamo che le decisioni prese alla CITES possono influenzare i produttori di strumenti e i musicisti in viaggio in modo molto intenso. La cosa sta diventando seria al punto che Bob Taylor ha voluto incontrarmi a Panama. Ha voluto vivere e vedere di persona il profondo impatto che questa convention un tempo oscura può avere sul nostro settore. (Ne ho parlato nel numero dell’autunno 2019 / Volume 95 di Wood&Steel.)

Molti osservatori fanno notare che la CITES pare concentrarsi sempre meno sul commercio per focalizzarsi sulla conservazione. Non è semplice giudicare dal canto mio ma, personalmente, sembra proprio che sia così. Ma i tempi cambiano. Il pianeta sta perdendo foreste intatte. Il cambiamento climatico è una cosa seria e, nonostante la popolazione mondiale abbia raggiunto gli otto miliardi di persone durante la seconda giornata della conferenza, la cosa è passata totalmente inosservata. Peccato che le dimensioni del pianeta siano rimaste le stesse. Oggi viviamo in un mondo molto diverso da quello del 1976, e i governi stanno adoperando gli strumenti a loro disposizione per affrontare una crisi ambientale su scala globale.

La sede della conferenza a Panama City era gremita di rappresentanti di 184 paesi che hanno lottato con centinaia di questioni: a partire dalle procedure parlamentari come l’aderenza e il perfezionamento delle normative, gli usi e i principi etici che regolano la convention, fino ad arrivare alla gestione e al monitoraggio di un elenco sempre crescente di specie animali e vegetali aggiunte alla convention. Si è perfino discusso se la CITES debba spingersi oltre un approccio relegato solo alle specie e iniziare a considerare l’impatto che il commercio internazionale ha su un ecosistema più ampio (come ad esempio le foreste). È bene menzionare che c’è stata la partecipazione anche dei delegati di vari enti dell’ONU e delle relative agenzie specializzate, organizzazioni intergovernative, organizzazioni non governative e il settore privato. In un angolo in fondo alla sala c’era un’insegna con scritto Taylor Guitars.

A Panama, è stato aggiunto alla convention un numero record di specie di alberi presenti in commercio, il che significa che saranno necessari ulteriori documentazioni e monitoraggio perché esso continui. Gli alberi di Handroanthus, rododendro e tabebuia, l’afzelia, la Dipteryx odorata, il padauk africano (o sandalo rosso) e il mogano africano (specie di Khaia)erano tutti elencati nell’Appendice II e assegnati alla Nota 17. Taylor Guitars non utilizza nessuna di queste specie, ma alcuni produttori di chitarre impiegano il Khaya. Alla luce della Nota 17, ora gli importatori di Khaia dovranno disporre dei documenti richiesti dalla CITES, ma una chitarra in Khaya non necessiterà della documentazione per superare i confini internazionali.

Il pianeta sta perdendo foreste intatte. Il cambiamento climatico è una cosa seria e, nonostante la popolazione mondiale abbia raggiunto gli otto miliardi di persone durante la seconda giornata della conferenza, la cosa è passata totalmente inosservata.

Come posizione politica, Taylor Guitars supporta pienamente che queste specie siano state inserite nell’elenco. Se la CITES ritiene che il commercio internazionale di qualunque specie meriti un monitoraggio incrementato per garantirne la sopravvivenza, in tal caso siamo lieti di aderire a ogni procedura e documentazione richieste per importare legalmente (ed eticamente) il legno che usiamo per creare le nostre chitarre. Comprendiamo inoltre che, a un certo punto, talune specie potrebbero essere totalmente rimosse dal commercio internazionale. Lo accettiamo. Ma crediamo anche che, incentrandosi sul commercio di prodotti di origine forestale, la convention sia salpata per acque inesplorate. Un compito ormai inesorabile.

I rappresentanti dell’industria musicale devono essere partecipativi per aiutare i responsabili del processo decisionale a comprendere le implicazioni delle decisioni prese perché, per la maggior parte dei suoi quasi 50 anni di storia, la CITES si è concentrata perlopiù sugli animali. Fino a poco tempo fa, le discussioni sulle piante erano passate molto in sordina. Ma tutto questo sta cambiando, e in fretta. Come un delegato disse qualche anno addietro, “il palissandro è l’elefante dei giorni nostri.” Ed è certo che tra tre anni altre specie di alberi verranno incluse nell’elenco della CoP20, e altre ancora dopo altri tre anni nella CoP21. E abbiamo motivo di credere che alcune di queste saranno specie che usiamo per realizzare strumenti musicali. Ci stiamo preparando per cambiare il mondo rapidamente, e frequentare incontri del genere ci aiuterà a distinguere la realtà dalle speculazioni. Per citare Mark Twain, “Non è ciò che non conosci che ti mette nei guai, è ciò che dai per certo che non lo è”.

Come un delegato disse qualche anno addietro, “il palissandro è l’elefante dei giorni nostri.”

Riflettori puntati sul pernambuco

Il più grande problema che influenza il settore di strumenti musicali alla CoP19 era il pernambuco (Paubrasilia echinata), da sempre famoso per essere il legno perfetto per gli archetti di strumenti a corde. Tradizionalmente non è un legno usato per costruire chitarre. L’albero è endemico della foresta atlantica brasiliana, un’ecoregione che costeggia il litorale sudorientale del Sud America e che ospita anche il palissandro brasiliano (Dalbergia nigra), l’unica specie di albero attualmente presente nell’Appendice I della CITES, che ne consente il commercio solo in circostanze eccezionali. La proposta per la CoP era di includere anche il pernambuco nell’Appendice I.

Una storia di colonizzazione e deforestazione

I portoghesi sbarcarono per la prima volta sulle coste brasiliane nel 1500, quando una flotta guidata da Pedro Álveres Cabral gettò l’ancora in quella che oggi è Porto Seguro. Si ritiene che in quel periodo la foresta atlantica si estendesse dal milione al milione e mezzo di chilometri quadrati per una distanza ignota nell’entroterra. Ma gli europei si insediarono prima sul litorale, e qualche secolo di disboscamento e conversione del terreno per agricoltura, allevamento e insediamento può avere un notevole impatto anche sulla foresta più rigogliosa. Oggi, di quella foresta originaria, si stima che ne sia rimasto solo il 7%. Questo, ovviamente, non è accaduto solo in Brasile, ma è l’avvicendarsi della civilizzazione occidentale: colonizzare, sottomettere, sgombrare la terra e impiegare le risorse della foresta per riparo, cibo, commercio e difesa. Tempo fa l’Islanda pullulava di alberi tra cui sequoia, magnolia e sassofrasso, che tuttavia iniziarono a scomparire quando i vichinghi vi si insediarono oltre un millennio fa. Di fatto, oggi l’Islanda non è nota per le sue verdeggianti foreste.

In Inghilterra, l’arcidiacono e geografo Richard Hakluyt, mentre ricercava un atto costitutivo regale per stabilire le colonie britanniche nel Nordamerica, giustificò la sua proposta con l’enorme vastità di alberi presenti, sostenendo che i coloni avrebbero rapidamente trovato un impiego. In quel periodo l’intera isola del Regno Unito, anch’essa un tempo fortemente popolata da querce e alberi da legno duro a Sud e conifere a Nord, venne, col passare dei secoli, grandemente convertita in pascoli e fattorie, mentre altre foreste vennero abbattute per alimentare le forge, fondere rame o per ottenere il sale, per non parlare della costruzione di imbarcazioni. Le terre a Ovest oltreoceano, sosteneva Hakluyt, già sfruttate da spagnoli e portoghesi più a Sud, fornivano un’inesauribile scorta di alberi. A fine 1800, qualche secolo dopo che la proposta di Hakluyt venne accettata da Re Giacomo I di Scozia, il governo statunitense iniziò a preoccuparsi per la perdita di foreste orientali in seguito agli insediamenti, alla conversione agricola, al disboscamento e all’emergenza di un settore di carta e polpa.

Quello che voglio dire è che, da un punto di vista storico, gli avvenimenti della foresta atlantica brasiliana sono una regola, non un’eccezione. La rovina della foresta non è dovuta ai produttori di archetti che usano il pernambuco, né ai produttori di chitarre che usano il palissandro. Eppure, per circa 100 anni, le chitarre sono state costruite con palissandro brasiliano e, per oltre 200 anni, i musicisti professionisti e gli esperti di strumenti a corda hanno sempre usato archetti in pernambuco. Questi archetti durano generazioni e possono essere tramandati di musicista in musicista per secoli. Spesso i performer eseguono un “upgrade” della loro strumentazione con l’avanzare della loro carriera, e gli archetti finiscono per cambiare padrone più di frequente. Oggi esistono centinaia di migliaia di archetti (nessuno sa con precisione quanti), e solo un occhio molto allenato riesce a differenziarne il periodo di costruzione. E, cosa molto importante, i controlli non sono mai stati applicati agli archetti terminati, almeno in un contesto normativo del calibro della CITES. Essi semplicemente esistevano e vennero passati di mano in mano per secoli. È molto raro trovarne una documentazione e la provenienza è spesso tramandata oralmente perché nessuno pensò di richiedere una certificazione, che pochi conservarono.

Poco tempo fa, in una terra non molto lontana

È incontestabile che ciò che resta oggi della foresta atlantica rientra tra le foreste più ricche e biologicamente diversificate del mondo; ciò che ne resta ospita ancora un esorbitante numero di specie introvabili in nessun altro luogo della Terra. Ma la più vasta ecoregione che era un tempo, oggi ospita la stragrande maggioranza della popolazione, industria ed economia brasiliana, e le principali cause della deforestazione sono correlate all’agricoltura (prevalentemente di canna da zucchero e caffè), all’espansione urbana, all’allevamento di bestiame e alle piantagioni di eucalipto.

Le preoccupazioni sul destino della foresta atlantica non sono cosa nuova. Nel 1967, il governo brasiliano vietò l’esportazione di alberi di palissandro brasiliano (Dalbergia nigra), senza vietarne l’esportazione del legno segato. Il palissandro brasiliano produce un legno visivamente piacevole e profumato molto in voga nei mercati europei a inizio 1800 e impiegato in una serie di prodotti, soprattutto mobilio ed ebanisteria. Nel 1992, pochi mesi prima della decisione di organizzare il Summit della Terra a Rio de Janeiro, il governo propose la specie da includere nell’Appendice I della CoP8 CITES a Kyoto, in Giappone, rimuovendola di fatto dal commercio internazionale. Fino a quel momento, nessuna specie di legno commerciata era mai stata inclusa nell’elenco, men che meno inserita nell’Appendice I. Fu una mossa scaltra per la nazione ospite alla vigilia di quella che sarebbe stata la conferenza ambientale più significativa della storia.

Fu solo nel 1997 che le Nazioni Unite riconobbero per la prima volta l’effettiva esistenza del disboscamento illegale.

L’elenco è stato una pietra miliare nella storia della conservazione, in particolare per la CITES. Ma la cruda verità è che per svariate motivazioni, c’è stato un periodo (che, a seconda delle opinioni, corrisponde a mesi, anni e perfino a un decennio) in cui il rispetto e la messa in atto dell’elenco sono stati alquanto indulgenti. Pare che le industrie e le agenzie governative più rilevanti abbiano bellamente ignorato l’elenco e, per un bel periodo, il commercio sia proseguito come prima. Il che è comprensibile, nell’immediato seguito dell’elenco. Parliamo di un po’ prima di Internet, quando se ne parlava in modo incostante. Inoltre, diversi governi hanno messo in dubbio la pertinenza della CITES, non vedendola adatta ad affrontare la questione. Un evento mai verificatosi prima di allora. Gli agenti doganali non erano addestrati per identificare specie di legno specifiche. Era raro che le fatture includessero nomi scientifici, e nessuno aveva mai richiesto di visionare un documento della CITES prima di allora. Giusto o sbagliato che fosse, erano tempi diversi.

Sia nella CoP8 (quando venne elencato il palissandro brasiliano) e tre anni dopo alla CoP9, furono avanzate proposte per l’inclusione di altre specie di legni commerciali, molte delle quali dovettero essere ritirate o furono rifiutate dopo discussioni accesissime. In particolare, si discusse molto sulle proposte di includere il ramino (qualunque numero di alberi da legno duro che cresce nelle paludi del Sud-est asiatico) e il mogano. In gran parte si è discusso per determinare se la CITES fosse un luogo appropriato per discutere delle specie di legni su scala commerciale, e diversi governi sostenevano che era meglio affrontare il problema a livello nazionale.

Nel suo libro The Evolution of CITES (2011), Willem Wijnstekers, che ricoprì il ruolo di Segretario generale della CITES dal 1999 al 2010, cita una “scarsa motivazione” e una “generale mancanza di interesse nella conservazione delle piante” del periodo attuale. Questa opinione permase con molti fino al CoP12 a Santiago, in Cile, quando l’argomento iniziò a prendere piede dopo una campagna del Greenpeace che espose le illegalità nel commercio del mogano e presentò esposti avvalorati dal governo brasiliano. È un periodo che ricordo benissimo perché facevo parte del team del Greenpeace in Brasile che documentava questo settore. Nel 2022, alla CoP12, la CITES ha votato per includere il mogano dell’Honduras nell’Appendice II, segnando l’ingresso nell’elenco più drammatico dai tempi del palissandro indiano, avvenuto un decennio prima.

Tempo fa l’Islanda pullulava di alberi tra cui sequoia, magnolia e sassofrasso, che tuttavia iniziarono a scomparire quando i vichinghi vi si insediarono oltre un millennio fa. Di fatto, oggi l’Islanda non è nota per le sue verdeggianti foreste.

Per avere una visione ancora più ampia, ricordiamo che è solo pochi decenni fa che iniziarono sul serio degli sforzi congiunti per dare maggiore trasparenza al commercio più ampio di prodotti di origine forestale. Fu solo nel 1997 che le Nazioni Unite riconobbero per la prima volta l’effettiva esistenza del disboscamento illegale, e dovemmo aspettare il 2008, quando gli USA emendarono il Lacey Act, perché l’importazione di legno abbattuto illegalmente diventasse reato. Subito dopo seguì una legislazione simile in Australia, Unione Europea, Giappone e Cina. Ricordo benissimo di aver partecipato a una conferenza internazionale sui crimini ambientali nel 2010 presso il quartier generale dell’Interpol a Lione, in Francia, in cui il tema centrale era “i crimini ambientali sono un reato”. Ripensandoci, lo slogan sembra un po’ triste, ma a quel tempo i crimini riguardanti le risorse naturali non venivano molto presi sul serio dalle autorità.

Nel frattempo, nella CoP19 di Panama

Nel corso della CoP, il dibattito sul pernambuco era accesissimo. E ad accendere ancor di più gli animi, attualmente esiste un’indagine che vede le forze dell’ordine brasiliane e statunitensi che potrebbe far venire a galla un’attività illecita sul commercio del pernambuco. Ovviamente, nessuno poteva parlarne mentre l’azione esecutiva era in corso. Ma era nell’aria. Si avvertiva in ogni istante.

A Panama, sembravano tutti frustrati. Il pernambuco era stato inizialmente incluso nell’Appendice II della CITES nel 2007 ma, sin da allora, la foresta atlantica ha comunque continuato a deteriorarsi, così come le foreste di tutto il mondo. Alla fine la CITES ha concordato di tenere il pernambuco nell’Appendice II, ma ne ha rivisto la nota reggente (Nota 10) esigendo licenze CITES su tutto il pernambuco, inclusi archetti terminati quando escono la prima volta dal territorio brasiliano; tuttavia, gli strumenti musicali terminati, le parti e gli accessori fatti di pernambuco saranno esenti dai requisiti delle licenze CITES.

Inoltre, è stato concordato un nuovo set di azioni associate perché le Parti e i Comitati della CITES ne discutano, le monitorino e, in determinati casi, le promulghino volontariamente nel corso dei tre anni precedenti alla prossima CoP, quando la questione verrà nuovamente sollevata. Tra le raccomandazioni, vi sono gli sforzi di considerare sistemi per documentare la legalità degli archetti e delle riserve di pernambuco, certificare il legno proveniente da piantagioni e supportare il capacity-building per gli sforzi di rispetto e conservazione circoscritti al territorio brasiliano e tra le Parti. Una decisione giusta e supportata dai rappresentanti di produttori di violini e di archetti, e dalle orchestre in tour presenti.

La decisione è stata un compromesso che darà ai governi il tempo necessario per comprendere meglio tutte le conseguenze che scaturiranno dalle nuove restrizioni della CITES, nonostante le buone intenzioni. Forse i negoziatori governativi hanno ricordato le ripercussioni della nota sul palissandro abbozzata troppo frettolosamente alla CoP17 del 2016, che generò una confusione per gli strumenti musicali e dovette essere emendata tre anni dopo al 2018. Qualcuno si sarà ricordato di Mark Twain. Le mie sono solo ipotesi. Ma sembra chiaro che, da un punto di vista politico, oggi alla CITES i problemi delle piante vengono trattati con la stessa importanza di quelli degli animali. (Ricordiamo che “il palissandro è l’elefante dei giorni nostri”, come disse il mio collega.) E meno male che è così.

Ma considerando i quotidiani viaggi internazionali e gli spostamenti transfrontalieri delle specie elencate dalla CITES, uno strumento musicale non è un elefante. D’altronde, non ho mai visto nessuno con un elefante in spalla in aeroporto mentre aspetta un timbro sul passaporto. E la frequenza di viaggi transfrontalieri degli strumenti musicali è destinata a salire grazie alla relativa facilità con cui si viaggia, alla portabilità e alla popolarità degli strumenti, e considerando che vendere una chitarra dall’altra parte del mondo è diventato facile come venderla dall’altra parte della strada. A onor del vero, sembra che il futuro degli strumenti sarà eternamente interconnesso con la CITES, ed è fondamentale che entrambe le parti si comprendano a vicenda.

Scott Paul è il direttore della Sostenibilità delle risorse naturali di Taylor.

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Mentre la Taylor espande la sua iniziativa per il legno urbano così da includere l’eucalipto rosso australiano, Scott Paul spiega il valore del nostro lavoro con la West Coast Arborists e la prolificazione dell’eucalipto in California.

La Taylor Guitars ha presentato per la prima volta il legno urbano all’interno della sua linea al NAMM 2020, in occasione dell’uscita della Builder’s Edition 324ce, con fondo e fasce in Urban Ash (meglio conosciuto come frassino Shamel, Fraxinus uhdei). Per quanto ne sappiamo, questa particolare specie di frassino non era mai stata utilizzata come legno per strumenti prima d’ora, almeno non su un modello dedicato. L’albero, originario del Messico e di alcune zone dell’America centrale, era stato piantato in modo prolifico nelle infrastrutture urbane in espansione della California meridionale dopo la Seconda Guerra Mondiale. È considerato un ottimo albero per fare ombra e si pianta ancora oggi.

Il nostro fornitore di frassino urbano è la West Coast Arborists Inc. (WCA) che, oltre a piantare e curare alberi in tutto lo Stato, li rimuove quando richiesto dai comuni di cui si occupa della manutenzione. La WCA è il nostro arborista locale qui a El Cajon, dove si trova la fabbrica di Taylor, ma serve anche delle comunità in tutta la California e persino in alcune parti dell’Arizona.

Quando abbiamo presentato la BE 324ce, la storia pregressa dell’“ex albero di strada” ha colpito molti musicisti ma, a prescindere dalla provenienza del legno, l’Urban Ash è stato acclamato come legno per strumenti. Bob Taylor ha definito questo legno “il mogano della California meridionale” e Andy Powers il “golden retriever” dei legni per strumenti, perché “che lo si tagli, lo si levighi, lo si pieghi, lo si incolli o lo si tinga, vuole solo accontentarti”. Ad Andy piace così tanto che da allora lo abbiamo incorporato in diversi modelli dedicati. È un ottimo legno per strumenti e proviene da una fonte responsabile.

In concomitanza con l’uscita della BE 324ce, scrissi un articolo, “Una foresta urbana come fonte di alberi” (W&S Vol. 96), nel tentativo di descrivere l’interesse di Taylor per il legno urbano, la maggiore necessità di creare un’economia per questo tipo di legno e, in definitiva, l’importanza di mantenere ed espandere la copertura arborea urbana nelle città di tutto il mondo. In quell’articolo ho fatto riferimento al giorno in cui ho portato Bob, Andy e un piccolo team della Taylor a visitare un cantiere di selezione del legno della WCA non troppo lontano da El Cajon, il luogo in cui l’arborista prende gli alberi rimossi dalle contee di San Bernardino e Riverside. 

Pat Mahoney aveva fondato la WCA nel 1972 e, circa quarantacinque anni dopo, suo figlio, “Big John” Mahoney, un uomo esuberante che si dà il caso sia un coltivatore di barba competitivo e uno scultore con la motosega, ha convinto il padre a far acquistare all’azienda una segheria portatile. Big John e un altro dipendente della WCA, Jason Rose (amico di John da quando avevano sei anni), hanno proposto all’azienda di potenziare il programma di riciclaggio del legno esistente che, oltre al programma di legna da ardere, prevedeva dei tronchi da fresatura riutilizzabili per realizzare delle panchine in legno da alberi urbani riciclati. Questo maggiore impegno avrebbe ridotto ulteriormente i costi di smaltimento trasformando gli ex alberi urbani, quando possibile, in legname grezzo utilizzabile o in pannelli con bordi vivi da vendere al pubblico. L’impresa fu ribattezzata Street Tree Revival e iniziarono a suddividere il legno in arrivo in varie categorie: per la legna da ardere, come si faceva da tempo, ma anche per il legname e i tavoli formati da pannelli. Di tanto in tanto, quando ne aveva voglia, Big John metteva da parte un albero particolare per soddisfare la sua passione per l’arte realizzata con la motosega.

Quando per la prima volta Bob e Andy si trovarono in uno dei cantieri di selezione dei tronchi della WCA, Street Tree Revival separava i tronchi di grandi dimensioni dal legno promettente in base alla specie e sigillava le estremità per evitare l’insorgere di crepe. Avevano un Wood-Mizer portatile e una collezione di motoseghe. Bob e Andy si avvicinarono subito ad alcune cataste di tronchi e identificarono in fretta diverse specie teoricamente promettenti per le parti di una chitarra.

Qualche giorno dopo i campioni furono tagliati e portati nel laboratorio di Andy per un’ulteriore valutazione. Il frassino Shamel, il “golden retriever”, è stata la prima specie a trovare spazio in una linea dedicata di chitarre Taylor, ma ora siamo lieti di presentarne un’altra. Dopo molte analisi, Andy ha scelto l’eucalipto rosso (Eucalyptus sideroxylon), una specie di eucalipto che chiameremo Urban Ironbark, come legno per il fondo e per le fasce della nuova Serie 500 di Taylor.

In questo numero, Jim Kirlin parla con Andy delle virtù sonore dell’Urban Ironbark e delle molteplici ragioni, dal punto di vista di un liutaio, per cui Andy ama questo legno. Io, invece, voglio cogliere l’occasione per aggiornarvi sull’uso sempre maggiore del legno urbano da parte della Taylor, per sottolineare ancora una volta l’importanza di mantenere ed espandere la nostra copertura arborea urbana, ma soprattutto per parlare dell’eucalipto.

L’eucalipto

Esistono oltre settecento specie di eucalipto nel mondo, la maggior parte delle quali originaria dell’Australia, ma alcune sono originarie delle isole vicine della Nuova Guinea e dell’Indonesia. Oggi l’eucalipto è l’albero più diffuso al mondo, con circa trenta-quaranta specie coltivate in ambito della selvicoltura commerciale in oltre cento Paesi. Gli alberi sono a crescita rapida e producono legname e pasta di legno di qualità. Alcune specie sono anche utilizzate per la produzione di tinture colorate che si legano bene chimicamente a materiali come la seta e la lana. Inoltre, le caratteristiche foglie ovali di alcune specie, dopo essere state essiccate, triturate e distillate, producono un olio utilizzato per carburanti, profumi e repellenti per insetti.

L’eucalipto è la specie arborea più diffusa al mondo.

Ma il fatto di essere la specie arborea più diffusa al mondo ha generato delle controversie. Negli anni ‘90, per esempio, si è assistito a un’escalation di grandi piantagioni di varietà migliorate di eucalipto, soprattutto ai tropici. La controversia è nata dal fatto che le grandi piantagioni necessitano di grandi quantità di terreno, quindi vaste aree di foreste e praterie autoctone sono state convertite, sconvolgendo gli ecosistemi e sollevando preoccupazioni sulla perdita di biodiversità. A complicare ulteriormente le cose, esiste una lunga storia di progetti di questo tipo utilizzati come mezzo per ottenere ricchezza e influenza territoriale, allontanando le popolazioni locali e indigene dalle loro terre.

L’eucalipto rosso utilizzato dalla Taylor Guitars proviene dalla California meridionale, dai nostri partner della West Coast Arborists. L’albero è originario dell’arido deserto interno dell’Australia orientale e, anche per gli standard degli eucalipti, è considerato particolarmente adeguato alle condizioni di stress. Una volta raggiunta la maturità, l’albero può arrivare a un’altezza compresa tra i nove e i venticinque metri. La sua corteccia distintiva è dura e spessa, e può essere grigia, marrone o nera; è una delle poche specie di eucalipto che non perde la corteccia. L’albero produce anche dei fiori di colore giallo crema, rosa o rosso. Queste caratteristiche hanno reso la corteccia di questo albero una delle preferite dagli imprenditori e dagli urbanisti.

Oggi l’eucalipto è così diffuso in California che è diventato un elemento iconico del paesaggio come la palma, un altro albero non autoctono.


L’eucalipto fu introdotto per la prima volta in California come prodotto agricolo destinato alla vendita durante la corsa all’oro degli anni Cinquanta dell’Ottocento, quando gli Stati occidentali americani previdero una carenza di legname. Gli agricoltori furono incoraggiati a piantare l’eucalipto con la promessa di un profitto significativo in soli trent’anni. Ma all’inizio del Novecento, il sogno di un mercato californiano dell’eucalipto era svanito perché gli americani, abituati all’abete di Douglas e alla sequoia secolari, non erano impressionati dal legno derivato dalle recenti importazioni australiane. Di conseguenza, migliaia di ettari di alberi non furono raccolti. Abbandonati, gli alberi prosperarono sulla costa della California, con il suo clima mediterraneo caratterizzato da piogge invernali e siccità estiva simile a quello australiano.

Oggi in California si contano circa duecentocinquanta specie diverse di eucalipto, non più piantate per motivi commerciali, ma come frangivento lungo le autostrade e i terreni agricoli, e come alberi ornamentali e per fare ombra nelle città e nei giardini. Tra i resti naturalizzati delle piantagioni precedenti e gli sforzi continui di piantumazione urbana, oggi l’eucalipto è così diffuso in California che è diventato un elemento iconico del paesaggio come la palma, un altro albero non autoctono.

Alberi urbani e legno urbano

Se mettiamo da parte l’eucalipto nello specifico e rivolgiamo l’attenzione alle chiome degli alberi urbani in senso più ampio, la loro importanza non può essere sottovalutata. E sempre più prove lo dimostrano: dalla quantità di anidride carbonica che gli alberi assorbono al loro ruolo nel raffreddare la temperatura dell’aria attraverso l’ombra e l’evaporazione, riducendo così in modo quantificabile il consumo di energia. Inoltre, le chiome delle foreste urbane migliorano in modo significativo la qualità dell’acqua, mitigando il deflusso delle piogge e le inondazioni, bloccando i venti forti e riducendo l’impatto acustico. Gli alberi filtrano l’inquinamento atmosferico e forniscono un habitat importante per gli uccelli canori e altri animali selvatici. Oltre a questi benefici ambientali ed economici, è sempre più evidente che gli alberi nelle città offrono una sovrabbondanza di benefici sociali, tra cui il miglioramento della salute mentale e della coesione della comunità.

Sappiamo tutti che dobbiamo espandere e diversificare le chiome urbane ma, naturalmente, gli alberi sono esseri viventi e tutti gli esseri viventi muoiono. E gli alberi nelle città vengono rimossi per innumerevoli motivi: danni causati da malattie, parassiti invasivi o tempeste, per la sicurezza pubblica, per la costruzione e lo sviluppo, solo per citarne alcuni. Quindi, sebbene sia imperativo espandere la copertura arborea urbana, un maggior numero di alberi significa, in ultima analisi, una maggiore produzione e un maggior numero di alberi che raggiungeranno la fine del loro ciclo vitale in futuro. È semplice matematica. Di conseguenza, sempre più persone in tutto il mondo cercano dei modi per trasformare gli alberi urbani a fine vita in prodotti di alto valore che possano sostenere il rinverdimento delle nostre infrastrutture urbane e alleviare la pressione sulle foreste altrove.

Un altro grande esempio di azienda nazionale che ha integrato il legno urbano è la Urban Wood Project di Room & Board, che produce bellissimi mobili con legno urbano proveniente da Baltimora, Minneapolis, Detroit e Sacramento. Al momento l’azienda sta esplorando altre opportunità in tutti gli Stati Uniti con l’intento di espandere la sua collezione di legno urbano in futuro.

La nostra collaborazione con la West Coast Arborists ha fornito una futura nuova e promettente fonte di legno di qualità per costruire chitarre. Sebbene la storia pregressa del legno urbano sia interessante e, a mio avviso, responsabile dal punto di vista ambientale e sociale, non avremmo investito in questo progetto se non avesse avuto un senso a lungo termine per la nostra attività. Non siamo interessati a produrre una singola serie di chitarre “ecologiche” per dare risalto alla nostra azienda. Il legno è legno, indipendentemente dalla sua provenienza e, affinché
funzioni, abbiamo bisogno di qualità, quantità e prevedibilità. Credetemi, sapendo quello che sa ora, Andy vorrebbe costruire chitarre in Urban Ash e Urban Ironbark, indipendentemente dalla loro origine, purché provengano da fonti responsabili.

Un’ultima considerazione: acquistare il legno urbano dalla California è ancora più costoso che acquistare quello proveniente da catene di approvvigionamento esistenti e consolidate, anche dall’altra parte del mondo, ma la WCA sta costruendo un ponte dalla sua parte, mentre la Taylor lo sta costruendo dalla nostra. E come Bob Taylor ama dire: “Tra dieci anni saremo contenti di averlo fatto”.


In the video segment above — part of a longer discussion about sourcing urban wood — Taylor content producer Jay Parkin talks with Taylor Director of Natural of Natural Resource Sustainability Scott Paul, chief guitar designer Andy Powers, and master arborist Mike Palat from West Coast Arborists. The four discuss what an urban forest is, the factors that make sourcing urban wood harder and more expensive than one might think, and what prompted West Coast Arborists to begin to create the infrastructure to support this new sourcing model.

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Sostenibilità

Tempi veloci alla Taylor Guitars

Scorri verso il basso

In uno scenario in continuo cambiamento è più importante che mai adattarsi e innovare.

A marzo la Fast Company ha definito la Taylor una delle aziende più innovative nel settore industriale. Citando i nostri sforzi per l’ambiente e la sostenibilità globale, è stato un onore essere al nono posto nella Top 10. È stato reso ufficiale durante la mia partecipazione al settantaquattresimo meeting della Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES) a Lione, in Francia. È stato perfetto ricevere la notizia durante questo meeting, perché il premio riflette in molti modi il cambiamento che coinvolge i costruttori di strumenti musicali, il vero motivo per cui ho partecipato al meeting. Seduto dietro il manifesto della Taylor Guitars in fondo a un grande auditorium, ho pensato al cambiamento e a come io, un ex forest campaigner di Greenpeace che una volta fu arrestato per aver ostacolato delle attività navali, rappresenti un’azienda di chitarre a delle negoziazioni di trattati multilaterali con lo scopo di assicurare che il commercio internazionale non sia una minaccia per piante e animali.

L’ultima volta che ho partecipato a un meeting della CITES è stato per la Conferenza delle parti nel 2019 a Ginevra, in Svizzera, quando fu fatta pressione, e con successo, per modificare l’elenco del palissandro per consentire agli strumenti musicali, alle parti e agli accessori finiti di essere esentati dalla richiesta di permessi CITES. (Per saperne di più sulla storia e la risoluzione dell’elenco del palissandro CITES, si veda l’articolo “Strumenti musicali in palissandro esenti dai permessi CITES” in W&S Vol. 95, autunno 2019.)

Tra dieci anni comprare il legno per gli strumenti musicali sarà molto diverso rispetto a dieci anni fa.

In circostanze normali, diversi incontri intersessionali si sarebbero svolti in presenza dopo il meeting di Ginevra ma, da quando la pandemia ha colpito, non viviamo in circostanze proprio normali. Anzi, da allora la CITES si è riunita per la prima volta durante questo meeting e sarà l’ultima prima del prossimo incontro a Panama nel 2023. Solo la Conferenza può apportare delle modifiche alla Convenzione e, in parte a causa della mancanza di importanti consultazioni negli ultimi due anni, nessuno sa se saranno apportate delle modifiche significative alla Convenzione, come l’elenco di nuove specie. Indipendentemente da ciò che accadrà a Panama, in futuro avremo nuovi elenchi CITES di alberi ed è inevitabile che alcuni saranno specie usate come legni da strumento. Lo scenario sta davvero cambiando.

La Taylor Guitars supporta a pieno la CITES. Non siamo contro dei nuovi elenchi o qualsiasi legislazione pensata per proteggere le foreste e avere una maggior trasparenza nel commercio di prodotti che ne derivano. Come tutti, vogliamo che la linea di condotta sia scientificamente giustificata e il linguaggio plasmato dalla consultazione con gli esperti dell’argomento e le parti interessate. Per raggiungere questo obiettivo, la comunità degli strumenti musicali deve essere lì, nel mezzo dell’azione, perché il cambiamento sta arrivando, sia che la nostra industria vi presti attenzione o meno.

Da come è sempre stato a come deve essere

Per circa 200 anni l’industria musicale ha potuto accedere a una fornitura affidabile di legno perlopiù stagionato ma, rispetto ad altre industrie, i costruttori di strumenti ne hanno consumato una percentuale molto piccola. Infatti, nel quadro generale, l’industria è sempre stata troppo piccola per influenzare i modelli di commercio internazionali. Anche adesso stimo che l’industria mondiale della chitarra utilizzi meno dello zero virgola uno percento del commercio globale delle specie che usiamo, con le sole eccezioni del koa e dell’ebano. Ma ai fini di questo articolo, il nostro consumo storico è irrilevante. L’unica cosa che conta è che oggi il patrimonio forestale globale si sta riducendo e sta diventando più frammentato, e che tra dieci anni comprare il legno per gli strumenti musicali sarà molto diverso rispetto a dieci anni fa.

Quando si parla di approvvigionamento del legno per strumenti, ricorderò sempre le parole di Bob Taylor: nel corso della sua carriera, gli sembra di essere passato dal come è sempre stato al come dovrebbe essere.

Per un momento si consideri che negli ultimi anni la Taylor Guitars è stata una pioniera nell’utilizzo di diverse tastiere in ebano e ha incorporato il legno urbano della California del Sud in diverse linee di prodotti. Abbiamo incrementato l’uso di specie sia domestiche sia coltivate. Inoltre, continuiamo a espandere la varietà di specie usate per i top delle chitarre e ci prepariamo a un futuro in cui i top in abete in quattro pezzi saranno molto più comuni.

Perché dei top in quattro pezzi? Perché con l’attuale distribuzione, in commercio non ci sono abbastanza abeti rossi con un grande diametro disponibili per fornire top in due pezzi per tutte le chitarre che in futuro verranno fabbricate nel mondo. In teoria ci sono, ma solo una parte è adatta alla costruzione di strumenti e la stragrande maggioranza di quello che viene preso viene venduto ad altri settori per l’edilizia, il cartone di fibra e i pellet di legno combustibile. Naturalmente, esistono anche delle impressionanti foreste di abete rosso in aree protette (un pezzetto di quello che c’era una volta) che si spera non saranno mai toccate.

Ci sono due motivi per cui i top in due pezzi sono diventati di uso comune. In primo luogo, perché gli abeti con un grande diametro hanno sempre abbondato; e in secondo luogo, perché realizzare un top in due pezzi richiede meno lavoro (meno pezzi da segare e meno giunture da incollare). Meno tronchi con un grande diametro e di alta qualità destinati ai costruttori di chitarre significa semplicemente doversi adattare e abbracciare il compito di lavorare di più per fabbricare un top di alta qualità per una chitarra, come fanno i costruttori di pianoforti. (La tavola armonica di un pianoforte è costruita con molte assi di abete.)

In futuro parleremo di più dei top in abete rosso in quattro pezzi, ma il punto è che tutte queste innovazioni (tastiere in ebano variegato, legno urbano, legno coltivato, più specie domestiche, cambiamenti nel design e nella costruzione, eccetera) stanno accadendo allo stesso tempo e per la stessa ragione. Le risorse forestali tradizionali su cui abbiamo sempre fatto affidamento, con poca lungimiranza, stanno cambiando e, in alcune circostanze, l’offerta disponibile in commercio sta finendo, almeno per il volume e la qualità a cui siamo abituati da tempo.

I tre cavalieri della perdita della foresta

Per oltre 150 anni i liutai hanno usato piccole quantità di legno, in gran parte stagionato, proveniente da diverse parti del mondo e immesso sul mercato perlopiù da altre grandi industrie che si procuravano il legno per costruire navi, aerei, edifici e mobili, eccetera. Per un liutaio il legno delle regioni temperate e tropicali è sempre stato abbondante, e delle specie particolari sono state selezionate per le loro caratteristiche acustiche, proprietà fisiche e lavorabilità. Ma con il passare dei decenni, con la crescita della popolazione umana, con l’avanzare delle tecnologie, con l’interconnessione dei mercati globali e la diminuzione della copertura forestale, molte delle industrie che guidavano il commercio di prodotti forestali sono cambiate. Alcune hanno sostituito una specie con un’altra o si sono adattate a specie di piantagione a crescita più rapida. Alcune industrie hanno cambiato del tutto i materiali, passando dal legno ai metalli, al cemento, alla plastica o ai compositi. Ma per i costruttori di strumenti musicali questo cambiamento non è così facile. Apprezzano la tradizione e le specifiche tecniche sono rigorose.

Eppure, tutto andava bene per i liutai, come era sempre stato, fino a pochi decenni fa, quando alcuni hanno iniziato a vedere dei cavalieri in lontananza (metaforicamente parlando). Quando si tratta di acquistare del legno stagionato i segni rivelatori dei problemi sono i cambiamenti di prezzo, qualità e geografia: quelli che io chiamo i tre cavalieri della perdita della foresta. Se ce n’è uno, probabilmente le cose vanno bene, ma se ci sono tutti e tre, c’è un problema. Naturalmente, la capacità di notare queste cose sarà diversa a seconda del volume e della regolarità del legno che si compra. Per esempio, per un liutaio che produce cinque chitarre al giorno sarà molto meno probabile accorgersene rispetto a uno che ne produce cinquecento o anche mille.

In un’industria che dipende dal legno di qualità con standard esigenti, se si cominciano a vedere i cavalieri, si hanno due opzioni: si può chiudere gli occhi e pregare o si può innovare. Per un liutaio potrebbe significare approcciare la costruzione in modo non tradizionale, per esempio incorporando l’ebano variegato, usando il legno urbano e coltivato, espandendo la tavolozza di specie per i top e facendone alcuni in quattro pezzi. Il mondo sta cambiando e, per citare il maestro liutaio della Taylor Andy Powers, “Non sai cosa sei in grado di fare finché non sai da cosa puoi farcela”. Trovo che sia un commento interessante da parte di un uomo la cui carriera si svolgerà in gran parte dall’altra parte della suddetta porta che Bob Taylor ha attraversato durante il suo operato.

Investire nell’inevitabile

La Taylor Guitars si è sempre rinnovata e adattata ai cambiamenti, e la qualità delle nostre chitarre continua a migliorare. E continuerà a farlo, ne sono sicuro. Non si può negare che è sempre più difficile ottenere dei buoni materiali per costruire chitarre. Andando avanti, la fornitura di legno sarà un fattore sempre più importante che ci richiederà di adattarci ulteriormente. Ma oltre all’innovazione nella produzione, l’industria deve iniziare a guardare a lungo termine quando si tratta di gestione delle foreste, guardando avanti di trenta, sessanta, cento anni o più.

Il mondo sta cambiando e, per citare le parole del maestro liutaio della Taylor Andy Powers, “Non sai cosa sei in grado di fare finché non sai da cosa puoi farcela”.

Il progetto Ebony Project in Camerun, il lavoro con il koa alle Hawaii con la Pacific Rim Tonewoods (PRT), il lavoro pionieristico di questa azienda con l’acero nel nord-ovest del Pacifico e la partnership della Taylor con la West Coast Arborists per gli alberi urbani sono tutti dei passi in questa direzione, ma dobbiamo farne di più. Anche altri produttori e organizzazioni sono impegnati. Infatti, accanto a me qui al meeting della CITES ci sono i rappresentanti della Lega delle orchestre americane, l’Associazione internazionale dei fabbricanti di violini e archi e la Confederazione delle industrie musicali europee.

In passato altri noti produttori hanno partecipato agli incontri e, allo stesso tempo, la nostra industria deve continuare a impegnarsi in queste discussioni internazionali e anche a trovare dei modi innovativi per aiutare a espandere la copertura forestale, diversificare gli ecosistemi forestali, coltivare alberi con tratti genetici superiori e usare l’influenza per guidare la silvicoltura, che si concentra sull’alta qualità al fine di ricostruire le straordinarie risorse che hanno dato origine a questa industria.

Scott Paul è il Direttore della sostenibilità delle risorse naturali dellaTaylor.

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Montagne di plastica

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Uno sguardo più approfondito nel problema di inquinamento mondiale da plastica e i nostri sforzi per ridurre il nostro impatto

A marzo la Fast Company ha definito la Taylor una delle aziende più innovative nel settore industriale. Citando i nostri sforzi per l’ambiente e la sostenibilità globale, è stato un onore essere al nono posto nella Top 10. È stato reso ufficiale durante la mia partecipazione al settantaquattresimo meeting della Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES) a Lione, in Francia. È stato perfetto ricevere la notizia durante questo meeting, perché il premio riflette in molti modi il cambiamento che coinvolge i costruttori di strumenti musicali, il vero motivo per cui ho partecipato al meeting. Seduto dietro il manifesto della Taylor Guitars in fondo a un grande auditorium, ho pensato al cambiamento e a come io, un ex forest campaigner di Greenpeace che una volta fu arrestato per aver ostacolato delle attività navali, rappresenti un’azienda di chitarre a delle negoziazioni di trattati multilaterali con lo scopo di assicurare che il commercio internazionale non sia una minaccia per piante e animali.

Tutto ebbe inizio l’anno scorso, quando Bob Thorp del team responsabile delle strutture scoprì che le nostre balle di pellicola usata non venivano più riciclate come credevamo, ma venivano smaltite nelle discariche. Mi riferisco alle pellicole in plastica con cui imballavamo le chitarre (nelle rispettive custodie) per il trasporto, o per ricoprire i legni che spostavamo in fabbrica sulle pedane. Basta fare un giro in un qualsiasi magazzino in tutto il mondo per vedere la stessa pellicola intorno alle pedane. Se acquisti un nuovo divano, stessa storia. Se affitti un furgone per traslochi, ti venderanno scatole e teli per proteggere i tuoi averi. Ovviamente, insieme alla pellicola.

Insomma, un giorno io, Bob Thorp e Bob Taylor eravamo in un angolino del campus Taylor, l’ultima destinazione dei nostri rifiuti prima che venissero prelevati. Vedemmo diverse balle di pellicola, poco dopo aver scoperto che sarebbero finite in discarica. Pochi minuti dopo, Bob Taylor chiamò la nettezza e disdisse la raccolta dei rifiuti finché non avremmo trovato una soluzione più responsabile. Concordammo che, fino a quel momento, avremmo impilato tutte le balle nel punto più visibile di tutti: proprio in mezzo al parcheggio del campus. L’idea mi piacque molto ma, col passare dei mesi, vidi quella pila crescere a dismisura dalla finestra del mio ufficio e ammetto che iniziai a preoccuparmi. Più cercavamo di capire il problema e trovare soluzioni, più la situazione si faceva confusionaria e preoccupante.

Il problema mondiale della plastica

Nel Famoso film Il laureato, il signor McGuire si rivolge a Benjamin Braddock (Dustin Hoffman), neolaureato un po’ sbandato dicendogli: “La plastica. L’avvenire del mondo è nella plastica. Pensaci!” Il futuro della plastica sembrava senz’altro radioso nel 1967: un materiale leggerissimo sintetico o semi-sintetico plasmabile in numerosi prodotti utilissimi. Oggi, appena 50 anni dopo che Benjamin ignorò la dritta del signor McGuire, il pianeta sprofonda in un mare di plastica inquinante.

Stando all’ONU, negli anni ’90 i rifiuti plastici si sono più che triplicati rispetto ai due decenni precedenti e, nei primi anni 2000, la produzione mondiale di rifiuti plastici crebbe più di quanto avesse fatto nei 40 anni prima. La stragrande maggioranza di questi rifiuti plastici non ha valore economico né di mercato, ragion per cui circa il 90% finisce in discarica, incenerito o spedito oltreoceano. E lupus in fabula, una gran parte finisce dritta negli oceani nelle cosiddette “isole di plastica” che si radunano in uno dei cinque giganteschi vortici oceanici; qui la plastica galleggia fino a decomporsi.

Il mito del riciclaggio

Fino agli ultimi anni, gran parte del mondo era totalmente ignaro della gravità del problema della plastica. Dormivamo tutti sonni tranquilli, convinti che i tanto acclamati programmi di riciclaggio tramutassero i nostri rifiuti plastici in prodotti riciclati che noi riacquistavamo, riutilizzavamo (seppur brevemente) e ri-riciclavamo nuovamente, proprio come indicava l’ormai famoso anello di Möbius. Se non ci pensiamo troppo, tutto torna. In realtà, però, realtà come Stati Uniti, Canada, Europa, Australia e Giappone (giusto per dirne qualcuna) non riciclano i propri rifiuti plastici, ma li spediscono oltreoceano. Dopotutto, occhio non vede, cuore non duole.

Nel 2017 venimmo riportati tutti alla realtà quando il governo cinese notificò all’Organizzazione mondiale del commercio che non avrebbe più importato rifiuti plastici dagli altri paesi. L’opinione pubblica non prestò molta attenzione, ma il problema è che non sappiamo come smaltire le assurde quantità di plastica che usiamo. E da consumatori, vivere senza plastica è straordinariamente difficile, perché quasi tutto quello che vediamo o usiamo ogni giorno è fatto di plastica.

Secondo il Forum economico mondiale, il 32% degli imballaggi in plastica finisce sparso nell’ambiente.

In realtà, la maggior parte della plastica consumata e smaltita ha un valore economico negativo, ovvero lo smistamento e lo smaltimento costano più della fabbricazione di prodotti in plastica vergine. Negli USA, solo una ridotta percentuale di plastica d’alto valore, come bottiglie e caraffe in PET o HDPE, viene riciclata entro i territori nazionali. La maggioranza della plastica consumata ha un valore negativo e non raggiunge mai una struttura di riciclaggio.

Secondo Jan Dell, ingegnere chimico indipendente e fondatore della The Last Beach Cleanup, una ONG fondata per porre fine all’inquinamento da plastica, solo il 9% dei rifiuti plastici viene raccolto per essere riciclato e, fino al 2017, circa la metà veniva spedita in Cina, in cui veniva smistata perlopiù a mano. Molta della plastica inviata in Cina finiva comunque in discariche o incenerita, lontana dagli occhi di chi la acquistava, la usava e poi la gettava. Secondo il Forum economico mondiale, il 32% degli imballaggi in plastica finisce sparso nell’ambiente, perlopiù finendo in oceani, fiumi e litorali, galleggiando un po’ ovunque. Un ulteriore 40% finisce in discariche e il 14% incenerito.

In parole (fin troppo) povere, per decenni, il consumo mondiale di plastica è schizzato alle stelle, mentre l’intero sistema funzionava perché l’Occidente importa dalla Cina container pieni di prodotti, esportando però molto poco. È per questo che le spese di spedizione verso la Cina sono molto più economiche che dalla Cina. Una volta in Cina, complice anche un costo del lavoro molto basso, era conveniente per alcune compagnie cinesi smistare i materiali per poi riconvertirli e rivenderli. La percentuale che non generava abbastanza profitto finiva in discarica o incenerita. È così che molte infrastrutture mondiali di “riciclaggio” hanno operato per decenni, ma alla fine il governo cinese ha compreso i costi esterni correlati a questo mercato (vedi salute e inquinamento), così nel 2017 ha informato l’OMC che la musica sarebbe cambiata. Ovviamente, i rifiuti plastici vengono ancora spediti regolarmente in paesi quali Tailandia, Indonesia, Vietnam e India, in cui il materiale viene smistato e ripulito (perlopiù a mano) per essere poi riciclato, mentre la percentuale ritenuta di valore negativo finisce in discarica o incenerita. Ogni paese consuma e smaltisce prodotti in plastica con una frequenza preoccupante, ma soprattutto acquista ciò che vuole, di cui ha bisogno o che può permettersi, spesso non potendo evitare prodotti o imballaggi in plastica per via di una commercializzazione aggressiva. Ed è raro che i produttori vengano responsabilizzati per lo smistamento o l’eliminazione dei loro prodotti dopo la vendita.

Intanto, a Taylor Guitars

Ho passato diversi mesi a guardare quel cubo di pellicola crescere fuori dalla finestra del mio ufficio. Abbiamo postato una foto sui social, ne abbiamo parlato nella newsletter aziendale, abbiamo analizzato i resoconti, contattato altre aziende e ci siamo consultati con esperti ambientali come John Hocevar di Greenpeace e Jan Dell di The Last Beach Cleanup. Abbiamo anche iniziato ad adottare altri impieghi per la plastica nella nostra fabbrica. Volevamo far luce sulla questione e capire meglio le diverse contraddizioni, quando accadde una cosa strana. Apparentemente, quell’enorme cubo di plastica, quel pugno in un occhio in mezzo al parcheggio, aveva suscitato parecchi dibattiti in tutto il campus Taylor, portando poi all’implementazione di diverse soluzioni per ridurre l’uso della plastica a favore di eventuali alternative. Ad esempio, le pedane con le componenti di manici di chitarra spostate col muletto da un edificio all’altro qui a El Cajon o spedite tra El Cajon e la nostra fabbrica a Tecate, in Messico. Ecco, quelle pedane una volta erano avvolte in questa pellicola, ora vengono fissate con imbottiture di cartone e cinghie in metallo. Lo stesso vale per i numerosi contenitori pieni di varie componenti di chitarra sballottati a destra e a manca. Ma stiamo anche esplorando nuove possibilità di design per gli imballaggi dei nostri slide in ebano cercando di evitare i consueti blister in plastica e preferendo la carta per proteggere i nostri articoli TaylorWare (T-shirt, cappellini, tazze, ecc.) per la spedizione. Certo, penserai “avreste potuto cominciare anni fa”. E hai ragione.

Che fine ha fatto il megacubo di plastica?

Durante le contrattazioni con le varie compagnie alla ricerca del modo più responsabile per smaltire la nostra pellicola (alcune pretendevano un pagamento, altre si erano offerte loro di pagarci), abbiamo posto loro una serie di domande. Tra queste: cosa pensate di farne? La rivenderete, getterete in una discarica, incenerirete, riciclerete? E se la riciclerete, per farne cosa? Dove la spedirete? Verrà esportata? Non cercavamo particolari risposte già definite. Cercavamo solo di comprendere la situazione, convinti dell’idea che riciclare è ovviamente meglio che gettare in discarica, e che spedirla in un raggio limitato è meglio che farla finire chissà dove. Che poi fossero loro a pagare noi o viceversa non ci interessava; alla fine si trattava di una somma esigua.

Di tutta la plastica esistita nella storia, più del 50% è stata prodotta negli ultimi 15 anni.

Oggi Taylor collabora con un’azienda chiamata PreZero, che ha una struttura di riciclaggio a poco più di 150 km a nord rispetto a noi, a Jurupa Valley in California. PreZero ricicla la nostra pellicola facendone pellet, poi spediti nella loro struttura a Oroville, in California, dove i pellet diventano sacchetti di plastica per i numerosi negozi dei centri commerciali. La struttura PreZero di Oroville è una delle poche in cui si trovano sacchetti di plastica fatti con materiali riciclati. (Come spiegherò tra un attimo, nella spedizione di chitarre, facciamo largo uso di sacchetti di plastica.)

Per mesi, i numerosi esperti che abbiamo consultato sul problema della nostra pellicola ci hanno appoggiati. Se proprio dobbiamo acquistare plastica, che sia plastica con materiali riciclati per favorire il mercato del riciclaggio. Tengo a sottolineare che la plastica vergine è più economica di quella riciclata e, di conseguenza, le infrastrutture adibite al suo riciclaggio sono praticamente minuscole.

La verità dietro i sacchetti di Taylor

Gli storici lettori di Wood&Steel lo sanno già. È da tempo che sosteniamo che la peggior causa di danni alle chitarre acustiche in legno massello sia dovuta a condizioni di eccessiva secchezza o eccessiva umidità. La questione del controllo dell’umidità è talmente importante per noi che non solo ogni chitarra e ogni custodia in legno vengono prodotte in un ambiente di controllo dell’umidità, ma prima che le nostre chitarre vengano inscatolate nel nostro magazzino di spedizione, la custodia viene posizionata in un sacchetto di plastica per proteggere ulteriormente lo strumento durante i viaggi nazionali e internazionali.

Quando esce dalla nostra fabbrica, la chitarra è in perfette condizioni, ma il viaggio di spedizione può essere tortuoso. Con tutta probabilità, viaggerà a bordo di un semirimorchio, caricata in un container di metallo e poi su una nave cargo transatlantica. Prima che tu possa imbracciare la tua chitarra, sarà stata chiusa in magazzino e, a seconda del periodo dell’anno, avrà viaggiato per regioni con climi e livelli di umidità molto diversi tra loro. L’esposizione a significativi cambiamenti nella temperatura e nell’umidità, soprattutto a quella bassa, può far sì che il legno si rimpicciolisca (o si accresca nei casi di maggiore umidità), influenzando negativamente il suono e la suonabilità, nonché causando eventuali danni allo strumento. Ciononostante, una chitarra di qualità ben curata durerà per generazioni.

Fino a poco tempo fa, i nostri sacchetti erano fatti con resina vergine al 100%; ma oggi, grazie a quell’enorme cubo di plastica che una volta mi perseguitava dalla finestra dell’ufficio, siamo passati ai sacchetti PreZero fatti con materiali riciclati al 60% (numero che spero possa presto diventare 80).

In sintesi, la nostra pellicola scartata (di cui facciamo sempre meno uso) oggi viene riciclata per formare pellet a Jurupa Valley e poi spedita a Oroville, in cui diventa sacchetti di plastica. Noi acquistiamo questi stessi sacchetti per proteggere le nostre chitarre, sostituendo i sacchetti in fibra vergine che usavamo in passato. Non è la soluzione perfetta, ma è meglio di quello che facevamo prima. E questo è solo un esempio del perché evitiamo di autoaffermarci come azienda ecosostenibile o di dire che le nostre chitarre sono sostenibili. Perché guardando l’intero procedimento manufatturiero, non siamo poi così tanto sostenibili, e poi perché riteniamo che la sostenibilità debba essere vista come un viaggio senza fine.

E, giusto per chiarire, il motivo per cui condividiamo tutto questo non è per cercare consensi. Abbiamo altri problemi da risolvere con la plastica. Francamente, solo di recente abbiamo iniziato ad adottare un approccio più apprensivo, e per questo mi scuso a nome di tutti noi. Stiamo solo cercando di essere quanto più trasparenti possibile sulla nostra posizione e su cosa intendiamo fare. E abbiamo ancora molta strada avanti a noi. In realtà, è una fortuna aver trovato PreZero, un’azienda abbastanza vicina da riciclare la nostra pellicola plastica, ma è una fortuna anche che produciamo un solo tipo di rifiuto plastico industriale, e perlopiù pulito e in quantità e qualità abbastanza decenti da essere raccolto in balle. (Importante: non gettare questo genere di rifiuti plastici nei cassonetti per il riciclaggio, perché le infrastrutture municipali non hanno la licenza per smistare, ripulire e lavorarlo.)

Ed eccoci qui. Di tutta la plastica esistita nella storia, più del 50% è stata prodotta negli ultimi 15 anni. Come consumatori, possiamo cercare di ridurre la produzione di rifiuti plastici, consumandone meno e con più cognizione ma, onestamente, la cosa migliore sarebbe responsabilizzare le aziende, votare e far approvare una legge apposita, e infamare ogni caso di greenwashing. E lo stesso vale per noi di Taylor Guitars. Per cui rivolgete pure ogni dubbio direttamente a me, ne abbiamo già una bella lista. Le recenti pratiche che abbiamo adottato a Taylor circa la pellicola e i sacchetti di plastica sono ovviamente positive, ma al momento sono solo un palliativo. C’è ancora molto che possiamo fare per ripulire quella che ormai è casa nostra. Ricordiamo sempre: la sostenibilità è un viaggio senza fine, ed è giunto il momento di affrettare il passo.

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Sostenibilità

Ebony Project: Verso la fase 2

Scorri verso il basso

Dieci anni dopo aver acquistato una segheria di ebano in Camerun, i nostri sforzi per garantire una catena produttiva etica di questo legno hanno portato a nuove scoperte scientifiche e a un programma modulare di piantagione pronto a espandersi del 100%.

A marzo la Fast Company ha definito la Taylor una delle aziende più innovative nel settore industriale. Citando i nostri sforzi per l’ambiente e la sostenibilità globale, è stato un onore essere al nono posto nella Top 10. È stato reso ufficiale durante la mia partecipazione al settantaquattresimo meeting della Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES) a Lione, in Francia. È stato perfetto ricevere la notizia durante questo meeting, perché il premio riflette in molti modi il cambiamento che coinvolge i costruttori di strumenti musicali, il vero motivo per cui ho partecipato al meeting. Seduto dietro il manifesto della Taylor Guitars in fondo a un grande auditorium, ho pensato al cambiamento e a come io, un ex forest campaigner di Greenpeace che una volta fu arrestato per aver ostacolato delle attività navali, rappresenti un’azienda di chitarre a delle negoziazioni di trattati multilaterali con lo scopo di assicurare che il commercio internazionale non sia una minaccia per piante e animali.

I lettori di Wood&Steel ricorderanno che dieci anni fa, nel 2011, Taylor Guitars e il nostro fornitore spagnolo di legni, Madinter, acquistarono la segheria di ebano Crelicam a Yaoundé, in Camerun, con l’obiettivo di creare una catena del valore socialmente responsabile dedita alla produzione di componenti in ebano per strumenti musicali. Dopo i primi anni passati cercando di adattarci alle realtà camerunensi, ricostruendo la segheria, addestrando gli impiegati all’uso dei nuovi apparecchi e modificando le nostre specifiche di fornitura per ridurre gli sprechi aumentando la resa (ad esempio usando ebano di diversa variegatura, senza fossilizzarci sulla tonalità più scura), siamo riusciti a rivolgere la nostra attenzione a un altro aspetto della gestione dell’approvvigionamento responsabile: sviluppare un’iniziativa modulare di piantagione dell’ebano.

Nel 2016, l’iniziativa vede ufficialmente la luce col nome di Ebony Project. Abbiamo collaborato col Congo Basin Institute (CBI) di Yaoundé con gli obiettivi iniziali di condurre ricerche ecologiche di base sulla propagazione dell’ebano (strano ma vero, le ricerche preesistenti erano molto limitate) e sfruttare quanto appreso per sviluppare vivai e programmi di piantagione comunitari che potessero successivamente espandersi. Il nostro primo traguardo era piantare 15.000 alberi di ebano e un numero indefinito di alberi da frutto come risorsa di cibo e di rendita per i villaggi che parteciparono al programma.

Nel corso degli ultimi cinque anni, l’Ebony Project ha riportato progressi lenti ma continui, permettendoci di imparare molto. Nel 2020, abbiamo superato l’obiettivo dei 15.000 alberi di ebano e il capo ricercatore del progetto, il dottor Vincent Deblauwe, ha pubblicato diversi paper scientifici che si stanno rapidamente affermando come testo definitivo su questa specie.

Ogni anno, il team del progetto redige un report per documentare i successi e le difficoltà dell’anno precedente, al contempo delineando gli obiettivi e le opportunità del futuro. Questi report si presentano come valutazione oggettiva dell’iniziativa e sono sempre disponibili al pubblico. Se vuoi saperne di più, il report più recente è disponibile al sito crelicam.com/resources.

Con l’evolversi del progetto negli ultimi anni, abbiamo stipulato un partenariato pubblico-privato col governo del Camerun e parte dei fondi sono stati stanziati dalla Franklinia Foundation e dall’Università della California. Tuttavia, a oggi, l’impresa è stata interamente finanziata da Bob Taylor.

Espandersi grazie ai finanziamenti esterni

Dopo aver lentamente stabilito un proof of concept col nostro paradigma di piantagione comunitaria, l’operato dell’Ebony Project ha attratto sempre maggiore attenzione e fondi sempre più ingenti, al punto da essere incluso in una grande iniziativa camerunense di conservazione forestale da 9,6 milioni di dollari finanziata dal Global Environment Facility. (Il GFE è un fondo fiduciario multilaterale le cui risorse finanziarie permettono ai Paesi in via di sviluppo di investire nella natura e supportare l’implementazione delle più importanti convention internazionali sull’ambiente su questioni come la biodiversità, la degradazione del suolo e il cambiamento climatico. A gestire i fondi del GEF saranno il governo del Camerun e il WWF.)

L’Ebony Project riceverà circa 1,4 milioni di dollari dal GEF, con cui potremo ampliare l’esperienza accumulata nei cinque anni precedenti e arrivare a piantare in ben 12 villaggi. L’investimento servirà anche a espandere le già rivoluzionarie ricerche scientifiche sull’ecologia dell’ebano dell’Africa occidentale e la foresta pluviale del bacino del Congo. È un periodo entusiasmante per il progetto… E non finisce qui.

Incrementare la produzione degli alberi da frutto

Il programma Partnerships For Forests (P4F) finanziato dal governo britannico ha stipulato una partnership col CBI per comprendere meglio le possibilità di espandere la produzione di alberi da frutto dell’Ebony Project e scoprire nuovi modi per accedere ai mercati locali e regionali. L’obiettivo è fornire un incentivo economico alla preservazione della biodiversità, al contempo affrontando i problemi di insicurezza alimentare. Sebbene il nome dell’iniziativa sia “Ebony Project”, piantare alberi da frutto è sempre stato parte del programma, anche se le risorse investite siano state indirizzate per lo più nella piantagione dell’ebano e nella ricerca scientifica. Ma la situazione è migliorata di anno in anno, e ci auguriamo che, col supporto di P4F, andrà sempre meglio. A seconda dei risultati dell’analisi, P4F è pronto a investire ulteriormente per favorire la produzione dei vivai di alberi da frutto e stimularne il commercio.

Contestualmente, il dottor Deblauwe e il suo team continuano a riportare importanti scoperte scientifiche che espandono la nostra comprensione circa l’ecologia della foresta pluviale del bacino del Congo. Di fatto, la ricerca indipendente a progetto fu determinante nella rivalutazione dell’ebano afriano secondo la Lista rossa IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura); l’albero era infatti considerato in via di estinzione 20 anni fa e ora è finalmente passato allo stato di vulnerabile. (Per maggiori informazioni sulla rivalutazione, consulta la colonna sulla sostenibilità nel numero W&S Vol. 94, estate 2019). Il progetto è servito a migliorare la nostra comprensione del ciclo di fruttificazione pluriennale dell’ebano; delle speciali telecamere notturne hanno infatti identificato per la prima volta gli insetti che impollinano il fiore dell’ebano e i mammiferi che ne mangiano il frutto, trasportano i semi nel proprio tratto digestivo e li disperdono nell’ambiente tramite la defecazione, favorendone così la riproduzione.

Lo sviluppo di un potente tool analitico

Nel frattempo, Steve Theriault, Business Intelligence Manager di Taylor, ha collaborato col dottor Deblauwe per convertire i dati del progetto raccolti a mano o digitalmente su Tableau, una piattaforma interattiva di visualizzazione di dati. Tableau venne creata inizialmente per aiutare le aziende a comprendere meglio le varie operazioni per mezzo di analisi di dati, fornendo visioni storiche, attuali e predittive come la visualizzazione dei grafici. Una risorsa niente male. E Steve è praticamente cintura nera terzo dan di Tableau. Lui e Vincent hanno creato qualcosa di incredibile. Bastano pochi clic per aprire una schermata super intuitiva che ci permette di condividere informazioni in modo semplice e comprensibile, così sappiamo sempre quanti alberi ci sono in ogni vivaio e in che anno saranno pronti al trapianto. Possiamo anche tracciare la raccolta annua dei semi e sappiamo anche chi ha piantato cosa, e dove. Possiamo interrogare il database sull’intero progetto o restringere il campo fino a ciascun villaggio. Si tratta di un mezzo molto utile che aiuterà molto nel corso dell’operazione di ripristino globale.

Verso la fase due

Ho iniziato a chiamare i primi cinque anni dell’Ebony Project “Fase uno: gli anni da start-up”, in gran parte finanziati da Bob Taylor. Abbiamo riscontrato successi e fallimenti, abbiamo allargato le partnership di piantagione a ben sei villaggi e abbiamo conquistato il traguardo di piantare 15.000 alberi. Abbiamo imparato tanto sull’ecologia di base della specie e sulle comunità di persone che abitano l’estesa zona cuscinetto della Riserva fauntistica di Dja, il sito patrimonio mondiale dell’UNESCO in cui operiamo. Bob e Tom Smith, fondatore del CBI e professore presso la UCLA, hanno stanziato una sovvenzione per garantire la continuità del progetto anche in futuro, qualora i finanziamenti esterni dovessero venire a mancare.

Entro il 2025 contiamo di piantare altri 30.000 alberi di ebano e 25.000 alberi da frutto.

Oggi, coi finanziamenti del GEF, P4F, Franklinia e dell’Università della California, siamo entrati nella fase due e abbiamo intenzione di raddoppiare il numero di villaggi che altrimenti verrebbero sovvenzionati. E abbiamo anche un nuovo obiettivo da qui a cinque anni: entro il 2025 contiamo di piantare altri 30.000 alberi di ebano e, per la prima volta, abbiamo anche in programma di piantare 25.000 alberi da frutto nel prossimo lustro. Se riusciremo nell’impresa, avremo migliorato l’integrità biologica dell’area adiacente alla Riserva di Dja, aiutato le comunità locali a superare i problemi di insicurezza alimentare e forse (e solo forse), un giorno, quando ormai saremo morti e sepolti, qualcuno potrà acquistare uno degli ebani che abbiamo piantato, per farne una chitarra.

Fase tre?

Lasciateci sognare. È più forte di noi, non riusciamo a limitarci solo a Dja, l’area attuale del progetto e patrimonio mondiale dell’UNESCO. Vogliamo espandere i nostri orizzonti fino a tutto il Camerun meridionale, e ancora più in là nel “Tridom”, una vasta area che include parti del Camerun meridionale, del Gabon e parte della Repubblica Centrafricana. Si dice sia il blocco forestale più intatto in tutto il bacino del Congo. La regione del Tridom ospita circa una decina di grosse aree protette. Ovviamente, ci vivono anche delle persone, tra popolazioni che abitano la zona da prima delle testimonianze scritte e coloni più recenti. Ci sono strade battute e città, industrie di lavorazione del legno e agricoltura. Ma questo ci fa riflettere. Se nei prossimi cinque anni l’Ebony Project dovesse andare a buon fine nella regione di Dja, sarebbe interessante replicare lo stesso modello anche in altre aree protette del Tridom. E questo tema, ci auguriamo, verrà approfondito in un prossimo numero di Wood&Steel.

Aggiornamento sul rimboscamento alle Hawaii: piantare il koa

Ecco un aggiornamento sull’ultima gestione delle foreste delle Hawaii. Ricapitolando: nel 2015 il fornitore e segheria di legno per strumenti Pacific Rim Tonewoods e Taylor Guitars fondarono una compagnia chiamata Paniolo Tonewoods. La nostra missione comune era di impegnarsi a preservare una futura fornitura di koa sostenibile per gli strumenti musicali attraverso la rigenerazione delle foreste autoctone, dove si trovano gli alberi di koa.

I progetti iniziali di Paniolo alle Hawaii presero in prestito un accordo implementato per la prima volta dal Servizio Forestale degli Stati Uniti, scambiando il valore del legno per i servizi forniti. Invece di pagare il proprietario terriero direttamente per i tronchi di koa o i diritti di raccolta, Paniolo era autorizzata a tagliare un numero limitato di alberi di koa designati e, in cambio, accettava di finanziare una serie di progetti per il miglioramento forestale del territorio. Questi miglioramenti, il cui valore era pari a quello del legno tagliato, includevano l’installazione di nuove recinzioni per tenere fuori le pecore e il bestiame selvatico, la rimozione di piante invasive, il miglioramento delle fasce tagliafuoco, e la piantumazione e il mantenimento delle piantine di koa coltivate nei vivai.

Come riferito precedentemente, nel 2018 si dette il via a un’altra iniziativa: Bob Taylor acquistò infatti 565 acri di pascoli ondulati all’estremità nord dell’Isola di Hawaii, salvaguardandoli. Oggi il territorio è gestito da Paniolo, incaricata di restituire gran parte del terreno a una foresta nativa hawaiana, a seguito del suo disboscamento per il pascolo circa 150 anni fa. Il piano prevedeva che Paniolo piantasse una foresta di koa nativo di specie miste per la futura produzione di legname, che avverrà quando la foresta sarà matura, circa 30 anni dopo la piantatura e continuando in perpetuo. Si prevede che la piantagione produrrà più del doppio del volume di legno di koa che oggi Taylor Guitars usa attraverso la selezione di alberi da tagliare e il loro reimpianto.

Lo scorso giugno Paniolo Tonewoods ha fatto un salto indietro nel tempo piantando, in dieci acri di proprietà, più di 3.000 alberi di koa e poco più di 800 specie miste di alberi e arbusti autoctoni. In seguito, il project manager di Paniolo, Nick Koch, ha fornito ulteriori dettagli sul territorio, sul rimboscamento e sui piani futuri.

“Il paesaggio pittoresco di Kapalua si trova tra le due comunità storiche di allevatori di Waimea e Honoka’a. Un luogo che custodisce gran parte della storia di Paniolo. Pascolare il bestiame è stato uno stile di vita sin dagli anni ’50 del XIX secolo, una tradizione che continua tutt’oggi, ma che ha portato alla scomparsa delle foreste native non solo in questo punto, ma in tutta l’isola.

“La vista dalla proprietà sulle valli e sulle montagne circostanti è spettacolare. Nelle belle giornate si può anche vedere la lontana isola di Maui avvolta dalla foschia. Questi panorami andranno persi a causa della crescita degli alberi nei prossimi 10-15 anni: un prezzo che vale la pena pagare per una proprietà che assicurerà la futura disponibilità di koa per la fabbricazione di chitarre Taylor. Le ampie vedute saranno sostituite da una lussureggiante foresta nativa con un’abbondanza di alberi di koa sani e curati, e un vasto habitat per gli uccelli autoctoni. Dopotutto, il legno è la risorsa rinnovabile per eccellenza e, attraverso progetti come questo, facciamo davvero la nostra parte per rinnovare le foreste e garantire la loro salute futura.

“Nei prossimi dieci anni, Paniolo Tonewoods pianterà 150.000 alberi di koa su questa proprietà. Solo nell’ultimo anno, ha piantato tre volte il numero degli alberi tagliati da quando il progetto è iniziato sei anni fa. E questo è solo l’inizio.”

Limitiamo tutti l’uso della plastica. Noi abbiamo già iniziato.

 Nello scorso numero, Jim Kirlin parlava dei nostri recenti sforzi per comprendere meglio l’uso della plastica nel nostro processo di produzione. L’articolo “Una pellicola dannosa: dentro al problema crescente della plastica” affrontava i problemi relativi all’uso della pellicola elastica che usiamo per avvolgere gli imballaggi conservati in magazzino o trasportati da un punto all’altro.

Col tempo abbiamo iniziato a capire sempre meglio la questione e abbiamo scoperto che i nostri metodi di smaltimento di questo materiale non erano i più eticamente responsabili. Così io e Bob Taylor abbiamo deciso di accumularla tutta in bella vista nel pieno centro del parcheggio principale, perché tutti i dipendenti potessero vederla. Bob mi aveva detto “La terremo lì finché non troveremo una soluzione, così la vedremo crescere sempre di più”. E così abbiamo fatto. Intanto il cumulo diventava una montagna, e alcuni di noi si sono operati per risolvere la questione. Abbiamo fatto delle ricerche, ne abbiamo parlato nella newsletter per dipendenti e in pochissimo tempo sono emerse varie idee su come innovare riducendo gli sprechi. Abbiamo postato il tutto sui social, ricevendo perlopiù incoraggiamenti e anche qualche consiglio utile. Per questo vi ringraziamo!

Speriamo di potervi aggiornare presto su quello che crediamo sarà un grande passo in avanti verso la riduzione del nostro impatto ambientale con la plastica. Siamo entrati in contatto con un’azienda che potrebbe offrirci una soluzione sostenibile e al momento siamo ottimisti, ma rimaniamo coi piedi per terra. Sarà solo un primo passo, ma è sempre quello più importante. Le statistiche parlano chiaro: la plastica è un problema ormai enorme in tutto il pianeta. Sarà un viaggio lungo e tortuoso, ma dobbiamo intraprenderlo insieme. Restate con noi e vi aggiorneremo nel prossimo numero.

Sostenibilità

Finiture senza confini

Scorri verso il basso

La ricerca e lo sviluppo di finiture ecologiche e di qualità dimostra la costanza del nostro impegno ambientalista.

A noi di Taylor Guitars piace dire che la sostenibilità è un percorso, non una destinazione. È una mentalità che ci spinge sempre a migliorare. Proprio per questo motivo stiamo studiando nuovi modi per lavorare con maggiore responsabilità senza compromettere gli standard sui quali è fondata la nostra azienda: oltre al semplice consumo di legno, stiamo analizzando il dispendio energetico, i prodotti plastici e monouso e perfino le nostre magliette. La perfezione è ancora lontana, ma stiamo facendo passi avanti. Dopotutto si tratta di un percorso.

Per essere un’azienda responsabile, non si può lasciare da parte la trasparenza. Perciò in questo articolo mi sono concentrato sulla finitura delle chitarre ripercorrendo il nostro passato, la situazione attuale e la direzione che stiamo cercando di intraprendere.

Comincio col dire che tra gli appassionati di chitarre la finitura può essere una questione che suscita forti emozioni. Fidatevi, se volete accendere un dibattito tra liutai e musicisti, provate a parlare di finiture. Ciò è dovuto in parte alla lunga storia delle finiture per gli strumenti a corde, ma anche alla moltitudine di opinioni sul modo in cui possono influenzare il suono, l’aspetto e la sensazione di una chitarra.

Ben più di un rivestimento

Le chitarre che raggiungono il reparto finiture del nostro impianto a El Cajon, in California, vengono sottoposte a una serie di processi, tra cui sabbiatura, colorazione, riempimento dei pori e applicazione della finitura. Una buona rifinitura non consiste solo di un rivestimento protettivo, ma è un sistema sofisticato che comprende diverse tecnologie e materiali applicati in una successione di livelli integrati che ricoprono funzioni specifiche. Ad esempio, il riempitivo per i pori penetra nel legno, stabilizzandolo, specialmente nel caso dei legni a pori aperti come il mogano. Un’ulteriore passata di vernice protegge il legno fornendo la quantità giusta di smorzamento (per maggiori informazioni su finiture e smorzamento, si veda il box laterale). Un altro strato del sistema di finitura è rappresentato dalla copertura finale, applicata di solito per motivi estetici, che a volte evidenzia le venature del legno e migliora l’uniformità del colore.

La storia dei materiali per finiture

Nel corso dei secoli sono stati usati molti materiali diversi per rifinire gli strumenti musicali in legno: oli (di lino o tung), cere, gommalacca (una resina prodotta dalla cocciniglia della lacca in India e Tailandia), vernici e innumerevoli smalti. Essenzialmente, la maggior parte delle finiture è composta da tre elementi: un solido (come la resina), un legante (per far aderire la finitura al legno e i solidi tra loro) e un veicolo (solventi, oli) che aiuta a sciogliere la resina per renderla più spalmabile.

Per capire meglio l’evoluzione delle finiture per chitarre, comprese le nostre, è necessario ricordare gli strumenti che ne hanno influenzato lo sviluppo, come l’oud e il liuto. Secoli fa, il legno di questi strumenti veniva protetto usando ingredienti naturali disponibili in loco, come ad esempio la colla d’albume, una miscela di zucchero (impiegato come resina per migliorare la durabilità), chiara d’uovo (l’agente legante) e miele (il veicolo per l’applicazione, che forniva anche un certo grado di flessibilità alla superficie). Forse in alcuni casi veniva anche aggiunta linfa indurita, estratta probabilmente dall’acacia.

finish spraying machine applying finish mist to an acoustic guitar inside the Taylor factory

Spessore e smorzamento della finitura

Esiste un nesso preciso tra spessore della finitura e smorzamento. Ad esempio, qui alla Taylor abbiamo trattato questo argomento durante l’introduzione di alcune delle nostre finiture sottili ideate per migliorare il suono. Una finitura troppo pesante limita eccessivamente la risonanza e la musicalità della chitarra. Ma al contempo una finitura troppo leggera (o del tutto assente) non fornisce un controllo sufficiente dello smorzamento, che può provocare un contrasto tra gli armonici e, a volte, un’acustica stridula. Perciò lo smorzamento non è sempre un aspetto negativo della componente sonora.

Finiture francesi

Le finiture degli strumenti in legno maturarono nel 1600, con il violino che fece da apripista per le finiture che seguirono. Una tecnica di finitura lucida nota come “finitura francese” passò dal mondo dei violini a quello delle chitarre classiche e parlor durante il XIX e il XX secolo. Il nome di questa tecnica deriva dal suo uso diffuso nei mobilifici francesi dell’epoca vittoriana: si trattava di un processo di lavorazione molto complesso in cui si applicavano numerosi strati sottili di gommalacca naturale, prodotta dalla cocciniglia della lacca, sciolta in alcol denaturato e strofinata con un panno imbevuto d’olio. Dato che l’alcol evapora in fretta, i tempi di asciugatura tra ogni applicazione sono molto brevi. Tuttavia, poiché ogni rivestimento è sottilissimo, si rendono necessarie centinaia di passate (non sto esagerando) per ottenere la superficie lucidissima che la gente adora.

Laccatura alla nitrocellulosa

Nel 1921 l’azienda chimica Dupont inventò la laccatura alla nitrocellulosa per l’industria automobilistica. Si trattava della prima finitura sintetica moderna: era resistente, si asciugava in pochi minuti e si poteva applicare con una pistola a spruzzo, risultando quindi perfetta per la produzione di massa. Questo processo fu presto adottato dai lavoratori del legno, tra cui i produttori di chitarre.

Ma la laccatura in nitrocellulosa aveva i suoi difetti. Innanzitutto, con i metodi tradizionali di verniciatura a spruzzo, l’efficienza di trasferimento (la quantità di finitura che si lega al prodotto senza disperdersi nell’aria) si aggirava intorno al 10 percento. Per le chitarre di legno, i solventi necessari per la sua applicazione richiedevano fino a due settimane di essicazione. In certi casi i solventi potevano continuare a evaporare per mesi o perfino anni, rendendo la finitura più densa e sottile. Inoltre, col passare del tempo, le finiture in nitrocellulosa tendevano a ingiallirsi e, con notevoli variazioni di temperatura, potevano causare piccole smagliature, note con il nome di finish checking (“finitura a quadretti”). Alcuni collezionisti di chitarre d’epoca ritengono che tali caratteristiche aumentino il fascino dello strumento.

Solventi e COV

Quando la laccatura in nitrocellulosa era ancora una novità, non si conoscevano appieno gli effetti collaterali dei solventi. Infatti, se si applicava con pistole a spruzzo industriali, la nitrocellulosa rilasciava quantità significative di composti organici volatili (COV), molti dei quali pericolosi per la salute e per l’ambiente. Certo, i COV si trovano dappertutto e si possono verificare anche in contesti normali, come quando si stappa una bottiglia di vino. Si tratta solamente di un gas, ma certi gas sono innocui e altri no. I COV emessi usando pistole a spruzzo per applicare la laccatura in nitrocellulosa possono risultare velenosi e provocare effetti nocivi per la salute, tra i quali irritazioni temporanee a gola, naso e occhi, respiro affannoso, mal di testa, nausea, vertigini e problemi alla pelle. A lungo termine questa sostanza può danneggiare polmoni, fegato, reni o il sistema nervoso centrale. Oggigiorno le finiture a laccatura in nitrocellulosa vengono ancora usate in molti settori, tra cui la produzione di chitarre, anche se il loro impiego è molto più sicuro grazie alle misure di protezione per i lavoratori.

L’evoluzione della finitura Taylor

Nel corso degli anni, i progressi scientifici nel mondo della plastica e dei polimeri hanno reso disponibili nuove forme di finiture. Molte di esse, come la conversione della vernice, uretani, poliuretani, poliestere e acrilici, sono state adottate dall’industria delle chitarre. Non sono altro che semplici resine ottenute con metodi scientifici e ognuna di esse emette un certo livello di COV. Quando Taylor Guitars aprì i battenti nel 1974, l’azienda adottò diverse finiture e metodi di applicazione diffusi nel settore a quell’epoca, dalla laccatura in nitrocellulosa alla conversione di vernice e, in seguito, ai poliuretani. Tutti questi materiali erano dannosi per l’ambiente e avevano tempi di indurimento molto lunghi.

Intorno al 1985 la Taylor cessò di impiegare finiture con laccatura in nitrocellulosa. Negli anni seguenti il reparto finiture Taylor continuò a trasformare i nostri metodi, passando da un approccio prevalentemente manuale e laborioso a sofisticate tecniche scientifiche.

La crisi è la madre di ogni invenzione

Bob Taylor è sempre stato un innovatore, ma a volte gli stimoli possono arrivare dall’esterno. Come quando nel 1991 Bob ricevette una lettera dallo Stato della California: fu informato che di lì a poco Taylor Guitars non avrebbe più potuto usare molte delle finiture impiegate nel settore. Gli altri produttori di chitarre avrebbero potuto continuare a utilizzarle, ma non quelli con sede in California. Per un’azienda giovane e in crescita, era un boccone amaro da mandare giù.

Bob vede la luce

Poco tempo dopo, Bob frequentò un seminario sull’uso della luce ultravioletta (UV) per accelerare il processo di indurimento delle finiture. Poi tornò in fabbrica e dichiarò: “Questa è la direzione da seguire. Dobbiamo sviluppare una finitura più ecologica e a UV per le nostre chitarre, costi quel che costi”. Ma c’era un problema. Non esisteva ancora l’indurimento a raggi UV per oggetti tridimensionali come le chitarre, e non si poteva dire che i produttori di finiture stessero sgomitando per aiutare una piccola azienda di un settore poco noto. Perciò assumemmo un chimico che lavorò insieme al responsabile del nostro reparto finiture, Steve Baldwin, per creare un nuovo rivestimento e sviluppare un metodo per ottenere un riempitivo e una copertura trattabili con i raggi UV. Nel frattempo Matt Guzzetta, il nostro progettista di macchinari e strumenti, ideò e realizzò un forno di indurimento fatto su misura per trattare la finitura in 30 secondi, rispetto ai 12 giorni di indurimento ad aria necessari per la laccatura in nitrocellulosa.

La nuova finitura si basava sul poliestere e conteneva meno solventi, riducendo quindi le emissioni nocive. A differenza della laccatura in nitrocellulosa, questa finitura era molto meno propensa a ingiallire col tempo e non insorgevano crepe con le variazioni di temperatura. Nel 1995 l’applicazione di finiture con indurimento a UV venne incorporata nel processo produttivo e la Taylor divenne il primo produttore di chitarre ad adottare le finiture a raggi ultravioletti: queste dimostrarono una maggiore resistenza e qualità acustica grazie al loro minore spessore. Anche l’enorme riduzione dei tempi di essiccazione migliorò l’efficienza produttiva riducendo al contempo le emissioni di COV.

Ritorniamo ai tre componenti di base delle finiture di cui parlavamo prima: un solido, un legante e un solvente (o veicolo). Come ci spiega il progettista di chitarre Andy Powers, la finitura con indurimento a UV rappresentò una rivoluzione perché venne meno il bisogno di usare solventi.

“La finitura a UV è composta solo da un solido e da un legante”, afferma. “I due componenti vengono catalizzati e passano dallo stato liquido a quello solido. Non è necessario un solvente per renderli spalmabili. In altre parole, il solido e il legante si possono stendere fin da subito, per poi cambiare stato quando vengono spalmati sulla superficie grazie alla luce a UV, eliminando gran parte dei solventi necessari. Così facendo non bisogna applicare dieci rivestimenti con un tasso di evaporazione dell’85 percento: ne bastano due in cui la quasi totalità della finitura rimane sull’oggetto, a parte quel poco che viene levigato”.

Una soluzione conveniente per l’azienda, più sicura per i lavoratori e più rispettosa dell’ambiente.

Buffy l’ammazzachitarre e l’attrazione elettrostatica

Il passo successivo della Taylor fu cercare di ridurre lo sforzo fisico del processo manuale di lucidatura e migliorare l’uniformità delle applicazioni. L’introduzione di questa nuova tecnologia fu problematica e i primi tentativi di programmazione di un sistema robotico di lucidatura valsero al macchinario il soprannome di “Buffy l’ammazzachitarre” (dall’inglese to buff, “lucidare”), ma col tempo il team imparò a regolarlo correttamente.

Qualche anno dopo si ricorse nuovamente alla tecnologia robotica, stavolta per la verniciatura a spruzzo: si ottenne una migliore efficienza di trasferimento così da ridurre lo spreco di materiali. L’efficienza di trasferimento venne incrementata ulteriormente con l’impiego dell’attrazione elettrostatica tra finitura e chitarra, in cui si utilizza un atomizzatore rotante e un ambiente climatizzato per ottimizzare l’adesione della finitura. In questo modo l’efficienza di trasferimento passò dal 15 percento della nebulizzazione manuale all’85 percento del metodo robotico/elettrostatico. Anche in questo caso si ridussero i COV e gli sprechi, ottenendo standard più uniformi e un ambiente di lavoro più sicuro.

Ci tengo a precisare che l’impiego di robot non ha comportato alcun taglio di manodopera. Abbiamo semplicemente facilitato un po’ la vita ai nostri lavoratori e limitato l’impatto ambientale dell’azienda.

Il nostro sistema di lucidatura robotica permette una maggiore consistenza eliminando la mole di lavoro fisico richiesta dalla lucidatura a mano.

Sempre più sottili

Nel 2011, l’arrivo di Andy Powers ci portò a sviluppare finiture ancor più sottili (possibili grazie alle tecnologie adottate dalla Taylor). Questa spinta innovativa richiese un processo di produzione ancora più scrupoloso, dal momento che una finitura più sottile riduce il margine di errore in fase di lavorazione. Infatti le nostre finiture non si ottengono aggiungendo strati su strati di vernice, ma sabbiando e levigando fino a raggiungere lo spessore desiderato. Per migliorare la qualità acustica, Andy voleva una finitura più sottile e Chris Carter (il successore di Steve Baldwin) e il suo reparto riuscirono a ridurre lo spessore della finitura lucida da 0,15 mm fino a un minimo di 0,089 mm su alcuni modelli. Per darvi un metro di paragone, un normale foglio di carta è spesso 0,076 mm (siamo in grado di misurare con precisione lo spessore delle finiture con un apparecchio a ultrasuoni).

Finitura ad acqua

Dal 2019 la Taylor ha iniziato a usare una finitura precatalizzata a base d’acqua per alcuni modelli. Questa offre un’ottima adesione, produce meno COV nocivi e, oltre a essere più rispettosa dell’ambiente, secondo molti chitarristi risulta più gradevole al tatto.

L’origine delle finiture ad acqua di Taylor Guitars si deve a un passaggio in auto e a una pandemia globale. Un giorno Bob Taylor stava guidando la sua nuova Tesla con Chris Carter e i due erano intenti ad ammirare il cruscotto in legno: Chris ipotizzò che si trattasse di una finitura ad acqua e promise di informarsi. Poco tempo dopo Chris cominciò a condurre test ed esperimenti su chitarre scartate e di lì a sei mesi trovò una finitura opaca alternativa, più sicura e facile da usare rispetto alla conversione di vernice. Chris lo riferì ad Andy Powers e qualche settimana dopo Andy iniziò a usarla su un prototipo al quale stava lavorando. I test diedero ottimi risultati.

Poi, il 19 marzo 2020, la pandemia di COVID-19 causò la chiusura dello stabilimento, seguita qualche giorno dopo dalla nostra fabbrica a Tecate. Ci dissero di restare a casa, come a tanti altri in tutto il mondo. Poi successe una cosa particolare: la gente iniziò ad annoiarsi. Molte persone ripresero in mano le loro vecchie chitarre e decisero di comprarne una nuova.

La nostra serie American Dream nacque in questo periodo: fu una reazione pragmatica a una filiera produttiva alterata e imprevedibile a causa della pandemia. Per farla breve, dopo aver esaminato il legno a nostra disposizione, Bob e Andy decisero di “ingegnarsi con ciò che avevano” e realizzarono una chitarra pratica in legno massello e catenatura V-Class che fosse prodotta negli Stati Uniti e che si potesse vendere a un prezzo più contenuto. Le chitarre American Dream sono state un grande successo, ma si è parlato poco del notevole passo avanti della Taylor nelle finiture a base d’acqua.

Quando ci permisero di far tornare in fabbrica piccole squadre di lavoratori con le nuove norme di distanziamento sociale, ci ritrovammo sotto pressione. La nostra azienda doveva lottare per sopravvivere e avevamo bisogno di maggiori risultati con meno mezzi. Ci serviva un processo di finitura più snello e veloce, ma Chris e il suo reparto erano già pronti con una nuova finitura ad acqua che avremmo poi usato in diversi modelli American Dream e anche nella nuova chitarra GT Urban Ash. Il successo fu immediato: risultò più resistente rispetto alla conversione della vernice e il processo di applicazione era più rispettoso dell’ambiente.

Ottenere di più per meno

Nello scorso numero di Wood&Steel avevo parlato dell’importanza dell’efficienza nel percorso verso la sostenibilità, nonostante sia spesso sottovalutata. Le continue innovazioni della Taylor nelle finiture per chitarre costituiscono un ottimo esempio di questo uso più intelligente dei materiali: il numero crescente di leggi a difesa dell’ambiente in California ci ha spronato a realizzare una finitura in poliestere indurito a UV più ecologica e sottile; un’iniziativa ideata per ridurre lo sforzo fisico del processo di lucidatura manuale (e per migliorare l’uniformità) ha portato allo sviluppo di robot per la verniciatura e la lucidatura che hanno migliorato l’efficienza di trasferimento; un giro nella Tesla di Bob e una pandemia globale hanno velocizzato l’adozione delle finiture ad acqua. E tutto ciò ha comportato un minore impiego di materiali aumentandone la sicurezza. Un risultato migliore per Taylor Guitars, per i suoi lavoratori, per l’ambiente e per i chitarristi.

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women working at tree nursery

Sustainability

I semi del cambiamento in un mondo che cambia

Scorri verso il basso

Nell’era del cambiamento climatico, piantare l’albero giusto nel posto giusto è più importante che mai. Ecco perché.

Nell’ultimo decennio, la riforestazione è diventata un movimento mondiale. Può essere considerata come l’equivalente del festival musicale più grande (e più prolungato), con concerti live sui palchi di tutto il mondo. Tra gli headliner ci sono Bonn Challenge, che vuole ripristinare 350 milioni di ettari di terreno degradato e senza alberi entro il 2030, l’Accordo di Parigi per combattere il cambiamento climatico e la New York Declaration on Forests, un programma internazionale per fermare la deforestazione globale sottoscritto anche da governi nazionali, compagnie multinazionali e organizzazioni non governative.

Supportare queste iniziative include sforzi di ripristino regionali come Initiative 20×20 in America Latina e AFR100 (African Forest Landscape Restoration Initiative) in Africa. Sui palchi minori ci sono le prossime iniziative locali, dove spesso le radici delle comunità sono più forti. Tra queste ci sono Ebony Project della Taylor Guitars in Camerun, Paniolo Tonewoods alle Hawaii e i nostri sforzi con gli alberi urbani nel nostro Stato, la California. Nel frattempo ce ne sono tantissime altre in tutto il mondo, su altri palchi e perfino nel parcheggio.

Nel complesso, la scala delle iniziative di riforestazione in atto adesso o prese in considerazione è senza precedenti. Perciò, abbiamo pensato che fosse il momento giusto per condividere un po’ di idee su un argomento tanto attuale. Ma prima, vale la pena sapere che la Terra ha diversi ecosistemi importanti e non tutti sono dominati dagli alberi, come foreste a chioma libera, torbiere, pascoli, tundra e deserti. Quindi, parlo di riforestazione in aree dove questa si rende necessaria.

Foreste e agricoltura

Sebbene far crescere gli alberi sembri un’azione semplice, come molte cose, decidere cosa e dove piantarli non lo è. Per esempio, la terra arabile è indispensabile per prendersi cura di una popolazione globale di 7,8 miliardi di persone, con l’aumento crescente della domanda di cibo, fibre e carburante. La parola “arabile” deriva dal latino arabilis, che significa “in grado di essere arato”.  Il terreno pianeggiante è economicamente più vantaggioso per colture o prati temporanei da falciare o per il pascolo. La concorrenza per questa terra è uno dei motivi per cui nelle regioni temperate si tende a vedere i boschi autoctoni rimasti sui pendii delle colline o nei burroni, dove l’attività agricola sarebbe costosa. È anche una delle ragioni per cui l’espansione agricola si sta verificando in tutta l’area tropicale, dove ci sono vaste zone di terreno pianeggiante con poche rocce e molto sole. Oltre il 70 percento della perdita di foreste tropicali è dovuta alla conversione per la produzione agricola su larga scala.

Oltre il 70 percento della perdita di foreste tropicali è dovuta alla conversione per la produzione agricola su larga scala.

Soddisfare la crescente domanda mondiale di cibo, fibre e carburante in un’era di cambiamenti climatici aiuta a spiegare perché la maggior parte dei più grandi progetti di riforestazione degli ultimi decenni ha dato la priorità alla piantatura di poche specie arboree redditizie, spesso esotiche. Potrebbe anche aiutare a spiegare perché spesso si vedono due statistiche apparentemente contraddittorie: che in generale in alcuni Paesi la copertura forestale è in aumento, mentre la foresta autoctona si sta riducendo. Non esiste una definizione universalmente condivisa di foresta, per non parlare della riforestazione. L’opinione al riguardo varia probabilmente a seconda che si tratti di un produttore di olio di palma, un forestale, un ecologo, uno scienziato sociale, un attivista ambientale o un funzionario del governo.

Dal punto di vista economico, spesso le specie esotiche godono di anni, anche decenni, di crescita rapida dovuta al fatto di essere separate dai predatori naturali del loro habitat nativo. Gli alberi in crescita sequestrano il carbonio e il legno è sempre più visto come un materiale da costruzione ecologico rispetto all’acciaio e al cemento. La crescita di un numero maggiore di alberi può anche ridurre il tasso di deforestazione delle vicine foreste autoctone, poiché le persone possono avere meno bisogno di andarci per il loro fabbisogno di legname o di legna da ardere. Quindi avere alberi a crescita rapida e a rotazione breve ha senso, ma dobbiamo bilanciare la diversificazione. Per il nostro pianeta (e il nostro festival metaforico) dobbiamo fare scelte informate e consapevoli per sopravvivere, e la diversità dev‘essere mantenuta.

Dal punto di vista ecologico, la coltivazione di alberi autoctoni offre il miglior ritorno sull’investimento, poiché queste specie si sono evolute per competere e sopravvivere in un rapporto simbiotico con la flora e la fauna circostanti. Inoltre, le specie arboree autoctone tendono a sostenere un maggior numero di insetti, un’importante fonte di cibo per gli uccelli, che a loro volta distribuiscono semi e aiutano una grande varietà di piante a riprodursi. Anche le popolazioni di insetti sani predano le piante autoctone, mantenendo le loro popolazioni controllate. L’importanza della protezione e dell’espansione delle foreste native non può mai essere troppo enfatizzata, un fatto che diventa più chiaro a mano a mano che si approfondiscono le conoscenze sui sistemi ecologici che sostengono la vita sulla Terra.

I climi che cambiano

Le conversazioni su cosa piantare e dove piantare non sono una novità. Indipendentemente dalla propria posizione sulla questione, il cambiamento climatico sta mutando tutto ed è una forza trainante per molti sforzi di riforestazione finanziati a livello internazionale, mentre i politici mobilitano fondi e cercano incentivi per rallentare, ridurre ed eventualmente invertire le emissioni di gas serra. Ma il cambiamento climatico sta anche influenzando l’atto stesso della crescita degli alberi. Per capire come, prendiamo l’Islanda, l’isola con vulcani attivi nella regione dell’Atlantico settentrionale.

Anche se le persone potrebbero immaginarla con le spiagge e i campi di lava, le montagne e i ghiacciai caratteristici, una volta l’Islanda era coperta di foreste. Circa 1000 anni fa con la colonizzazione gli alberi sono stati abbattuti ed è stato introdotto il bestiame, esponendo il terreno dell’isola notoriamente ventosa e creando le condizioni che impediscono di riavere delle foreste.

Nel tentativo di riforestazione, gli islandesi iniziarono a piantare delle specie autoctone, ma dopo pochi decenni si sono resi conto che la nuova foresta stava morendo. Le condizioni erano cambiate: gli inverni erano più miti e le estati più lunghe, e molti alberi non potevano sopravvivere.

Anche gli alberi stanno cambiando gradualmente latitudine o prosperando a quote più elevate. Sì, col tempo anche gli alberi migrano.

Quando il Paese ha incorporato diverse specie esotiche più adatte alle condizioni attuali, la riforestazione ha cominciato a prendere piede. Quale lezione dobbiamo imparare da questo esempio? In alcuni luoghi il cambiamento climatico sta superando l’evoluzione di nuovi tratti degli alberi che aiutano a determinare, per esempio, quanto caldo ci vuole in estate, quanto tollerano la siccità e quando iniziare o interrompere la crescita stagionale. In diverse regioni di tutto il mondo, stiamo vedendo piante e animali lasciare i loro territori storici e spostarsi in zone più adatte o perire. I pesci tropicali stanno migrando verso Nord o verso Sud dall’equatore verso acque più fredde. Anche gli alberi stanno cambiando gradualmente latitudine o prosperando a quote più elevate. Sì, col tempo anche gli alberi migrano.

Un altro esempio più vicino alla Taylor Guitars di come il cambiamento climatico sta mutando le regole del gioco è che adesso il governo degli Stati Uniti sta sostenendo la piantatura di “alberi pronti per il clima” nelle città della California. Questi alberi sono adatti alle mutevoli condizioni ambientali, come la maggiore probabilità di siccità. Molti provengono da luoghi come l’Australia, l’India, il Messico o il Brasile.

Crescere

Il cambiamento climatico è una questione molto complicata e la ricerca scientifica indica che la cosa migliore che possiamo fare per mitigarne l’impatto è ridurre il consumo di combustibili fossili. Far crescere gli alberi non è una panacea, ma è una grande idea. Così cerchiamo di ripristinare i sistemi naturali mentre allo stesso tempo ci prendiamo cura di una popolazione globale in continua espansione, che a volte può avere la sensazione di avere i Sex Pistols su un palco e la Filarmonica di New York su un altro.

L’1 marzo 2019, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha ufficialmente adottato una risoluzione che dichiara gli anni dal 2021 al 2030 il Decennio delle Nazioni Unite per il ripristino degli ecosistemi e nel 2020 il Forum economico mondiale ha lanciato la piattaforma Trillion Trees per sostenerlo. Attraverso iniziative come TerraMatch, il match.com degli alberi, finanziano gruppi locali esperti che si dedicano alla riforestazione nel modo giusto. E i ricercatori stanno anche migliorando nel vedere dove crescono gli alberi con l’aiuto dei satelliti, aiutando a tracciare i progressi verso questi ambiziosi obiettivi. Ovunque ci si giri, sembra che stia succedendo qualcosa.

Mentre affrontiamo le sfide e la complessità della riforestazione in tutto il mondo, è utile tenere presente che le prove archeologiche ed etnobotaniche dimostrano che l’umanità è sopravvissuta e ha prosperato manipolando l’ambiente e spostando piante e animali da un luogo all’altro. Valorizzare, e non sminuire, il mondo che ci circonda è la cosa migliore che possiamo fare per soddisfare le nostre esigenze. Come dice il proverbio: “Il momento migliore per piantare un albero è stato 20 anni fa. Il secondo momento migliore è adesso”.

Con i partner giusti e un appropriato impiego di risorse, la conoscenza locale e il potere delle comunità coinvolte, il festival global di riforestazione può non finire mai.

Taylor Guitars staff at a lumber yard

Sustainability

Potenziale di crescita

Scorri verso il basso

Con due progetti di piantatura in cantiere, la collaborazione di Taylor con partner come West Coast Arborists fa luce sulle sfide e i vantaggi di creare un’economia circolare intorno agli alberi urbani.

In questo numero di Wood&Steel ci sono articoli sulle due nuove chitarre fatte con Urban Ash™: la GT Urban Ash e la 326ce, una nuova Grand Symphony con spalla mancante soundport. Queste chitarre si uniscono alla 324ce Builder’s Edition, presentata al Winter NAMM Show all’inizio del 2020. Ci procuriamo il frassino, conosciuto anche come Evergreen o Shamel, dal nostro arborista locale, West Coast Arborists Inc. (WCA), che fornisce servizi professionali di manutenzione e gestione degli alberi per circa 300 agenzie pubbliche, comprese città e contee in California e Arizona.

Adoriamo l’Urban Ash come legno. Anzi, Bob Taylor ha cominciato a chiamarlo “il mogano della California del Sud”, ma la verità è che, finché non lo abbiamo stretto tra le mani, in zona non c’erano infrastrutture per procurarsi il legno in modo economico per la nostra azienda con la qualità, quantità e prevedibilità necessarie. I frassini Shamel si trovano in tutta la California del Sud, su terreni sia pubblici che privati governati da un insieme di municipalità, ognuna delle quali ha la propria sottosistemazione di giurisdizioni. Quando una città deve rimuovere un albero, un arborista lo abbatte con cura, pulisce, pianta un altro albero se gli è stato detto di farlo e l’intero sistema è progettato per smaltire i resti il più velocemente possibile e in modo economico. Sembra logico, a meno che non si voglia realizzare qualcosa con questo legno.

Ovviamente, da tempo alcuni artigiani e piccole falegnamerie acquistano il legno urbano attraverso reti informali e rapporti personali, ma è imprevedibile e la maggioranza del legno buono sparisce prima che si sappia che è disponibile. In generale, acquistare del legno urbano dedicato alla costruzione di un modello di chitarra dedicato è come cercare un ago in un pagliaio.

Perché? In parole povere, la pratica e le infrastrutture di rimozione degli alberi urbani si sono evolute non tenendo conto della necessità di identificare il legno utilizzabile o di renderlo disponibile per i falegnami e i produttori. Con così tante agenzie, giurisdizioni e avvocati, è più semplice sbarazzarsene.

Diversi anni fa, un bellissimo albero di acacia nero (blackwood della Tasmania) stava per essere rimosso in una scuola vicina alla casa di Andy Powers a Carlsbad, California. Ovviamente, Andy è andato a dare un’occhiata: ha notato una sezione “molto speciale” della parte inferiore del tronco con un bel colore e ha visto delle figure ritorte nella parte dove la corteccia è stata tolta. Lo staff stava tagliando il legno in pezzi più piccoli e maneggevoli per venderli e fare dei trucioli quando Andy chiese se poteva avere il pezzo che aveva visto, indicando la sua falegnameria e offrendosi di trasportarlo con il suo piccolo trattore Kubota. Gli dissero di no, com’era prevedibile. Quel legno sarebbe stato pacciamato. Ho sentito questa storia più di una volta e noto sempre un’eco di dolore nella voce di Andy quando ripensa alle chitarre che avrebbe costruito.

Il partner perfetto

Per un’azienda come Taylor Guitars, le complicazioni relative all’approvvigionamento di legno urbano sono state una piccola ma prolungata frustrazione. Bob Taylor costruisce chitarre da anni e, quando si parla di alberi urbani già abbattuti, gli ho sentito dire più di una volta che “quando sanno che lo vuoi, non lo avrai mai”.

Ma a quanto pare, c’erano un posto e un’azienda – la WCA – dove tutto poteva funzionare per Taylor e permettergli di produrre una linea di chitarre in legno urbano. Ironia della sorte, era proprio accanto alla fabbrica. In effetti, certi giorni posso guardare fuori dalla finestra del mio ufficio e veder passare i loro camion. WCA è il nostro arborista locale qui a El Cajon. Si occupano anche dei volumi, curando oltre sei milioni di alberi in tutto lo stato. Hanno infrastrutture, oltre a un programma software per l’inventario degli alberi che mostra le specie e i registri di manutenzione di ogni albero di cui si occupano. Come ho imparato, hanno anche un cortile per lo smistamento dei tronchi piuttosto unico nel suo genere a Ontario, in California, a circa 120 miglia dalla fabbrica Taylor. La cosa più importante è che erano anche disposti a pensare fuori dagli schemi.

Fino a circa l’anno 2000, la maggior parte del legno che proveniva dal cortile di Ontario era venduto come legna da ardere o mandato in discarica, ma per anticipare le normative statali e compensare i costi di smaltimento, WCA ha iniziato a separare il legno per specie man mano che arrivava. A Ontario avevano il lusso dello spazio. Col tempo hanno iniziato a sigillare le estremità dei tronchi grandi e di qualità per evitare che si rompessero e hanno acquistato una segheria portatile Wood-Mizer, lanciando un’iniziativa di riciclaggio del legno urbano denominata Street Tree Revival, incentrata in gran parte sulla vendita di assi live edge e legname dimensionale.

Eppure, la prima volta che qualcuno della Taylor Guitars ha messo piede in quella proprietà, esistevano solo pezzi di una catena di fornitura in grado di trasformare gli alberi di città abbandonati in una chitarra Taylor. La WCA aveva una piantatura e una cura sofisticate degli alberi, e li rimuoveva in modo accurato, ma nel piazzale di smaltimento aveva solo una capacità di fresatura di base e la capacità di occuparsi delle peculiarità del legno urbano, come i pezzi di recinzione metallica o i chiodi che occasionalmente sono incastonati all’interno degli alberi della città. E sebbene avessero un software per tracciare gli alberi nella loro rete, solo gli alberi nel raggio di 25 o 50 miglia venivano portati a Ontario. Semplicemente, dal punto di vista economico non aveva senso trasportare gli alberi più lontano solo per trasformarli in legna da ardere, e avevano già più tavole grezze di quante ne potessero vendere.

Questa infrastruttura poteva davvero rifornire una linea dedicata di chitarre Taylor? Poteva essere sostenibile? Un investitore in capitale di rischio avrebbe rinunciato, ma secondo noi, se non poteva funzionare qui, non avrebbe funzionato da nessun’altra parte.

Per essere chiari, da decenni la gente gestisce le imprese di legno urbano, ma credo sia giusto definirle imprese di provincia: durature ma su piccola scala, isolate l’una dall’altra. Quello che proponevamo noi era qualcosa di diverso. Molti problemi avrebbero dovuto essere risolti man mano che andavamo avanti, ma nella vita le cose tendono ad accadere perché la gente decide di farle accadere. E in questo caso, Bob Taylor, il fondatore della WCA Pat Mahoney e Steve McMinn della Pacific Rim Tonewoods hanno deciso di farle accadere.

Pensate alle chitarre realizzate con legno urbano come ai primi tempi dei pannelli solari. Per decenni i pannelli solari non hanno avuto senso dal punto di vista economico, ma la gente li comprava comunque, perché sentiva che era la cosa giusta da fare. Gran parte dello slancio produttivo è stato alimentato da sussidi e sovvenzioni. Con il tempo la tecnologia è migliorata, l’innovazione ha risolto i problemi, le catene di fornitura si sono evolute e si è creata una valida infrastruttura di produzione. Oggi vedo pannelli solari sui tetti di tutta la California del sud, che fanno risparmiare denaro alla gente e riducono il consumo di combustibili fossili. È stata fatta molta strada da quando l’Università del Delaware ha creato Solar One, uno dei primi edifici solari, nel 1973. Non stiamo chiedendo e non abbiamo bisogno di sussidi o sovvenzioni per costruire chitarre, ma stanno accadendo alcune cose interessanti a livello nazionale per quanto riguarda la piantatura di alberi urbani, la creazione di posti di lavoro e la fornitura di servizi ambientali.

Grants to Plant Urban Trees

Quando abbiamo presentato la 324ce Builder’s Edition al Winter NAMM 2020 di Anaheim, su Wood&Steel ho scritto dell’importanza degli alberi urbani e della necessità di piantarne altri. Ho anche menzionato il nostro interesse a essere un banco di prova, contribuendo a creare un’economia circolare che generi posti di lavoro e sostenga la piantatura, la manutenzione, lo smaltimento e la riconversione degli alberi urbani. Ovviamente, siamo ancora agli inizi, ma con l’uscita della 326ce e della chitarra GT Urban Ash volevamo condividere qualche progresso.

Qui in California, il Department of Forestry and Fire Protection (CAL FIRE) ha un Programma Forestale Urbano e Comunitario che fornisce assistenza tecnica e gestisce sovvenzioni ai governi locali e ai gruppi no-profit di tutto lo stato per ottimizzare i benefici delle foreste urbane. I progetti finanziati sono concepiti in sinergia con il California Global Warming Solutions Act del 2006. Pensate a cose come il sequestro del carbonio, servizi ambientali come aria e acqua pulite, gestione delle acque piovane, riduzione del consumo di energia, salute pubblica e iniziative come la rivitalizzazione urbana e la realizzazione di prodotti utili, quali energia più pulita e legno di qualità. Se vi piace una di queste cose, allora piantate e curate gli alberi urbani.

E grazie a Mike Palat, il manager regionale di San Diego di WCA, adesso Taylor Guitars fa parte di due di queste sovvenzioni CAL FIRE. Mike è stato una delle prime persone che ho incontrato quando Bob mi ha chiesto di iniziare a guardare gli alberi urbani e mi ha aiutato a informarmi sui temi, compreso il labirinto kafkiano della politica associata che ne deriva. Ora Mike e io siamo nel consiglio di amministrazione di Tree San Diego, un’organizzazione no-profit che si dedica ad aumentare la qualità e la densità della foresta urbana di San Diego. Ci sono organizzazioni simili in tutti gli Stati Uniti e, sempre più, in tutto il mondo.

Quest’anno Tree San Diego ha ricevuto una sovvenzione CAL FIRE per piantare oltre 1.500 alberi su proprietà private residenziali in comunità svantaggiate della contea di San Diego, compresi i terreni di riserva nella contea orientale, nel 2021. Il progetto si chiama Branch Out San Diego e utilizza i dati di immagini aeree forniti da FireWatch, con sede a San Diego, che sta davvero facendo passi da gigante con questo tipo di immagini per quantificare e monitorare i benefici degli alberi e delle foreste urbane. I partner locali Mundo Gardens e One San Diego aiuteranno ad aumentare la consapevolezza della comunità con istruzione ed eventi di piantatura, assicurando che, una volta piantati, gli alberi siano irrigati, pacciamati e monitorati. Lo staff di Taylor parteciperà e contribuirà a diffondere la notizia. Avrete maggiori informazioni a tempo debito.

Taylor Guitars è anche coinvolta in una seconda sovvenzione CAL FIRE, che è stata assegnata al California Urban Forests Council, un gruppo a cui WCA partecipa da tempo. La sovvenzione dell’AMPlifying California Urban Forestry Movement cerca di migliorare e diversificare le foreste urbane nelle comunità svantaggiate e a basso reddito di tutta la California, piantando circa 2.000 alberi in tutte le città dello stato nel 2021. Il nome “AMPlifying” si ispira all’impegno di Taylor a sostenere il progetto. Parleremo ulteriormente anche di questo, man mano che sveleremo i dettagli, ma per ora possiamo anticipare che le città che hanno confermato il progetto includono: Chino, Concord, Glendora, Livermore, Orange, Palm Springs, Pico Rivera, Paramount, Santee, Tracy e Woodland. Entrambe queste sovvenzioni sottolineano la necessità di piantare e curare gli alberi nelle comunità svantaggiate e a basso reddito, perché è un dato di fatto che i quartieri benestanti tendono ad avere più alberi (e tutti i benefici associati di cui sopra), mentre i quartieri meno benestanti non ne hanno.

Come accennato in un precedente articolo, è importante capire che in ultima analisi più alberi significano una maggiore produttività e più alberi che raggiungeranno la fine del ciclo di vita in futuro. È semplice matematica e ancora oggi molti arboristi e funzionari comunali sono alle prese con i costi di smaltimento. Realizzare un’economia circolare che crei posti di lavoro e sostenga la piantatura, la manutenzione, lo smaltimento e la riconversione degli alberi urbani sarà sempre più importante. Taylor Guitars avrà qualcosa in più da dire anche su questo, nelle prossime edizioni di Wood&Steel. Come piace dire a Bob, “investire nell’inevitabile”.

Scott Paul è il direttore della Sostenibilità delle Risorse Naturali della Taylor.

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Un motivo importante per cui vogliamo mettere in evidenza questi progetti, al di là del nostro desiderio di operare con trasparenza, è dimostrare ciò che è possibile ed ispirare gli altri. Potremmo essere “solo” una azienda che produce chitarre, ma non rinunciando al pensiero innovativo, a una mentalità collaborativa e alla volontà di perseverare, crediamo che si possa realizzare molto.

Nel frattempo, mentre continuiamo a dare forma alla nostra nuova piattaforma digitale dinamica per Wood & Steel, non vediamo l’ora di informare ad un livello più approfondito di contenuti su questi tre progetti, nel tentativo di arricchire la vostra prospettiva in questo lavoro. In diversi modi, l’esperienza del sito web dell’Ebony Project che abbiamo lanciato nel 2018 ha preparato il terreno per il tipo di Storytelling che speriamo di portare e, nel tempo, prevediamo di creare più esperienze come questa, attraverso questo nuovo formato di Wood & Steel.

Cameroon: L’Ebony Project

Il viaggio dell’ebano: dalla foresta alla tastiera
Segui il ciclo vitale di un albero di ebano, da una pianta in un vivaio in Camerun alla foresta, dove crescerà in grandezza e altezza per molti decenni; alla falegnameria di ebano Crelicam a Yaoundé, la capitale del paese; allo stabilimento Taylor di El Cajon, in California; e alla fine nelle mani di un musicista come componente integrale di una chitarra.

Se non avete familiarità con gli sviluppi di quello che chiamiamo Ebony Project, permettetemi di ricapitolare. Tutto ebbe inizio nel 2011, quando Taylor e il fornitore spagnolo di legno per chitarre Madinter acquistarono la falegnameria di ebano Crelicam a Yaoundé, in Camerun. L’abbiamo fatto per diversi motivi, ma, in primo luogo, ci ha permesso di assumerci la responsabilità diretta del nostro approvvigionamento di ebano, un legno importante che il nostro settore si usa tradizionalmente (ogni chitarra Taylor ha una tastiera e un ponte in ebano). In breve, una volta acquistato Crelicam, l’aspetto etico ci ha conquistati.

I primi anni, è vero, sono stati difficili, ma abbiamo lentamente apportato i necessari aggiornamenti fisici alla fabbrica migliornado le condizioni di lavoro e avanzando in efficienza. Nel 2013 i nostri sforzi sono stati ripagati con il premio di Eccellenza Aziendale conferito dal Segretario degli Stati Uniti, un riconoscimento dato all’azienda statunitense che sostiene i più alti standard di business e aggiunge valore alle comunità in cui opera all’estero.

Nello stesso periodo, ci siamo anche interessati a piantare l’ebano per il futuro. Abbiamo creato un vivaio di ebano a Crelicam, ma i risultati iniziali sono stati contrastanti. Nel momento in cui Bob Taylor e altri si sono messi a fare ricerca sulla riproduzione dell’ebano, si sono anche resi conto della sorprendente mancanza di informazioni disponibili relative alla specie stessa (Diospyros crassiflora Hiern). Bob commissionò una revisione della letteratura indipendente che confermò la scarsità di informazioni di base sull’ecologia dell’ebano, come ad esempio il modo in cui l’albero si riproduce. La revisione ha concluso che la silvicoltura dell’ebano africano era in gran parte incompleta.

Per questo motivo, nel 2016 abbiamo lanciato l’Ebony Project in collaborazione con il Congo Basin Institute (CBI). Il piano era di condurre ricerche di base sull’ecologia dell’ebano e di piantare 15.000 alberi di ebano in diverse piccole comunità che proteggono la riserva della foresta di Dja, un sito patrimonio mondiale dell’UNESCO nel Camerun sud-orientale. Poiché la sicurezza alimentare è una questione importante in questa regione, le piantagioni includono anche alberi da frutto per fornire una fonte di cibo continua per le comunità partecipanti. Bob e sua moglie Cindy hanno finanziato personalmente l’intero progetto. (Per ulteriori informazioni su questi sforzi, di seguito il link al sito web Ebony Project website insieme ad alcuni numeri arretrati di Wood & Steel, tra cui Vol. 91 / Summer 2018 e Vol. 94 / Summer 2019.   

Da allora, il Dr. Vincent Deblauwe della CBI e il suo team di ricerca hanno fatto diverse scoperte scientifiche di riferimento, tra cui alcune prime documentazioni sugli insetti che impollinano il fiore di ebano e sui mammiferi che ne disperdono i semi, riscuotendo un grande successo nella semina a coltivazione dell’ebano . Quest’anno supereremo il nostro obiettivo originale di piantare 15.000 alberi. Sono state piantate anche diverse migliaia di alberi da frutto.

Nel 2019, le previsioni di salvaguardia dell’ebano dell’Africa occidentale sono state migliorate nella Red List delle specie a rischio dell’IUCN, in parte per merito di una maggiore comprensione delle specie grazie al lavoro del dottor Deblauwe. Nello stesso anno, è stato completato uno studio di fattibilità su vasta scala per l’Ebony Project, come richiesto nell’accordo di partenership pubblico-privato tra Taylor Guitars e il ministro dell’Ambiente del Camerun, firmato durante la United Nations Climate Convention a Bonn, in Germania, nel 2017. Pensiamo allo studio su larga scala come una tabella di marcia per far crescere il progetto oltre ciò che Bob e Cindy possono finanziare da soli. Quest’anno abbiamo accolto con favore il sostegno della Franklinia Foundation e della University of California i cui contributi sosterranno ulteriormente la ricerca scientifica in corso e hanno consentito al progetto di espandersi da un totale di sei villaggi pianificati a otto entro la fine di quest’anno. Nel 2020, i villaggi partecipanti pianteranno fino a 9.000 alberi di ebano e 2.800 alberi da frutto

California deal Sud: Urban Ash

Il progetto Urban Wood di Taylor
Scott Paul spiega la visione dietro l’iniziativa Urban Wood di Taylor e la nostra collaborazione con gli arboricoltori della West Coast

Al Winter NAMM Show 2020, tenutosi lo scorso gennaio, Taylor ha presentato una nuova chitarra, la Builder’s Edition 324ce, e con essa ha anche introdotto un nuovo promettente tonowood nel mondo della chitarra acustica: l’Urban Ash™, più comunemente noto come Frassino (Fraxinus udhei). Quello che chiamiamo Urban Ash è originario delle regioni semi-aride del Messico e di parti dell’America centrale, ma è stato portato in California da Archie Shamel nei primi anni ’50. Shamel ha lavorato per il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti e ha ritenuto che le specie di frassino, alberi con una rapida crescita, fossero utili nel boom della costruzione di case nel dopoguerra nel sud della California. La specie è stata diffusa da vivai locali e piantata in tutta la regione, e oggi è una pianta comune dal nord al sud della California. Mentre tutt’oggi si continuano a piantare frassini, gli alberi più vecchi prossimi alla fine, vengono rimossi.

La sfida nel mantenere una foresta urbana
Sul suolo pubblico, l’amministrazione cuttadina decide cosa piantare, quando piantare e se prendersi cura di o rimuovere un albero. Sfortunatamente in ogni città la semina di alberi, la manutenzione e la rimozione sono in genere aspetti per cui si riserva poco budget rispetto ad altri servizi pubblici piu’ importanti come la polizia e i vigili del fuoco. Di conseguenza, negli Stati Uniti, la durata media della vita di un albero urbano è di soli otto anni. Gli alberi sono spesso trascurati (non adeguatamente irrigati) e talvolta sradicati da un ambiente urbano in continua evoluzione. Detto questo, molti alberi sopravvivono, crescono, prosperano e diventano grandi nel tempo.

Ci sono molte ragioni legittime per cui un albero della città deve essere rimosso, come la vecchiaia, la sicurezza pubblica se l’albero è indebolito da malattie, parassiti invasivi o tempeste e, in alcuni casi, per fare spazio allo sviluppo urbano. Ciò provoca tensione sociale. In poche parole, tutti vogliamo piantare più alberi – dopo tutto, gli alberi sono una buona cosa – ma gli alberi delle città esistenti hanno una vita limitata nonostante i molteplici vantaggi che offrono. Quando una città decide di abbattere un albero, molti cittadini comprensibilmente ne sono contrari e, a volte, possono cercare di salvare un albero senza comprendere appieno la necessità di rinnovamento. Per complicare ulteriormente le cose, storicamente non c’è mai stato un gran ricavo dal legno ottenuto dagli alberi rimossi e il costo di smaltimento degli alberi delle città sta diventando sempre più oneroso.

Una Seconda Vita per gli Alberi Urbani
Con la realizzazione della Builder’s Edition 324ce, Taylor ha aperto una nuova iniziativa di sostenibilità che sta studiando come trasformare gli alberi urbani prossimi a morire in prodotti di alto valore che si spera possano supportare la rigenerazione della nostra infrastruttura urbana e, forse, nel tempo, alleviare lo sfruttamento delle foreste altrove. Nel fare ciò, siamo consapevoli sia del declino degli alberi urbani in tutto il mondo sia del fatto che gli arboricoltori e i funzionari delle amministrazioni municipali stanno affrontando l’aumento dei costi di smaltimento e le polemiche politiche per via della rimozione degli alberi urbani.

Come sempre Taylor Guitars tenterà di utilizzare il business per favorire un cambiamento positivo. Come ho descritto nella mia rubrica Wood & Steel, “Seeing the Urban Forest for the Trees” (Vol 96 / 2020 edition, pagina 8), capire un’economia circolare che crea posti di lavoro e supporta la semina, la manutenzione, lo smaltimento e il riproposizione di alberi urbani è, e sarà, sempre più importante. Il nostro obiettivo è vedere che il massimo beneficio degli alberi può corrispondere al beneficio di tutta la società, con la qualità dell’aria e dell’acqua, il risparmio energetico e il benessere mentale e spirituale. Ovviamente non possiamo farlo da soli, ed è per questo che stiamo collaborando con il nostro arboricoltore locale qui a El Cajon – West Coast Arborists, Inc., una società di manutenzione degli alberi urbani ben consolidata che opera in tutto lo stato della California. Insieme, possiamo tentare di dare l’esempio. Con il tempo, speriamo di espandere i nostri sforzi in ogni posto da noi raggiungibile. Spero presto di aggiornarvi sulle diverse iniziative di piantagione di alberi urbani a cui parteciperanno Taylor e WCA.

Per ulteriori approfondimenti sulla  Builder’s Edition 324ce e la nostra nuova partnership con West Coast Arborists, rimandiamo a Wood&Steel Vol 96 2020 Issue.

Ascolta la Bulder’s Edition 324ce
Andy Powers di Taylor suona una Builder’s Edition 324ce con fasce e fondo in Urban Ash.

Hawaii: la Gestione delle Foreste Native 

Molti lettori di Wood & Steel riconosceranno il nome Paniolo Tonewoods, una Joint Venture tra la segheria fornitrice di legno Pacific Rim Tonewoods e Taylor Guitars. La società è stata fondata nel 2015 con l’obiettivo di raccogliere gli alberi di koa per produrre chitarre e allo stesso tempo contribuire alla vitalità a lungo termine delle foreste native delle Hawaii. Mi rendo conto che potrebbe sembrare controintuitivo tagliare alberi in nome del recupero delle foreste, ma a causa in parte della natura dell’ecologia dell’isola e in particolare del koa hawaiano, Paniolo migliorerà nel tempo la qualità delle foreste hawaiane dove opera. Permettetemi di spiegare come.

Gli ecosistemi insulari come le Hawaii sono particolarmente vulnerabili alle specie invasive. Dopotutto le Hawaii sono tra gli arcipelaghi più isolati al mondo, dando origine a specie animali e vegetali uniche che si sono sviluppate in questo isolamento e sono quindi inadatte alla concorrenza e all’adattamento. La maggior parte degli ecosistemi forestali alle Hawaii è in uno stato di lento declino a causa di specie infestanti, incendi e predazioni introdotte da animali al pascolo come pecore e bovini. Lo zenzero Kahili, ad esempio, si forma in vaste e fitte colonie che soffocano la vegetazione esistente, guadagnandosi il triste primato e di essere incluso nell’elenco del gruppo delle 100 specie più invasive al mondo. Tali specie di piante “trasformatrici” invasive hanno la capacità di modificare o distruggere interi ecosistemi. Varie specie di piante che si sono evolute col tempo sono state introdotte alle Hawaii per migliorare la qualità del pascolo. Esacerbando tutto ciò, il pascolo di cervi non nativi, pecore selvatiche e bovini porta alla depredazione, al calpestio e alla distruzione di alberi giovani che non hanno difese. Il giovane koa naturalmente germinato è come un’insalata a volontà per questi ruminanti in liberta’. Questo è il motivo per cui la recinzione, la gestione delle piante infestanti e gli spazi antincendio sono tutti così importanti. Le aree boschive native delle Hawaii, dove opera Paniolo Tonewoods, necessitano di un’adeguata gestione per il recupero. E una corretta gestione delle foreste non è economica.

Paniolo Tonewoods è stata creata per garantire una fornitura futura di koa rigenerando la pianta stessa all’interno delle foreste native, installando recinzioni, fornendo protezione antincendio e rimuovendo le erbacce invasive. Ciò è completato dalla naturale germinazione dei semi di koa che rimangono sepolti nel terreno e, in aggiunta, nella semina di migliaia di piantine di koa coltivate in vivai. Nonostante questi alti obiettivi, durante i suoi primi due anni, Paniolo ha ottenuto il koa in maniera tradizionale, acquistando cioe’ tronchi selezionati e disponibili da terre private. Questo è cambiato nel 2016, quando Paniolo ha iniziato a lavorare con un Ranch privato a Maui.

Questo Ranch aveva oltre 20 acri di koa piantati da 30 anni in due boschi che avevano iniziato a declinare e mostravano segni di putrefazione. (Il bosco di Koa è molto sensibile al marciume e i gestori del Ranch sapevano che questi alberi sarebbero solo peggiorati.) Questi boschi unici erano stati originariamente piazzati su una parte remota della proprietà e, sfortunatamente, i cervi selvaggi si sono fatti strada attraverso la recinzione e cominciarono a mangiare i giovani alberelli di koa, arrestando e stravolgendo cosi’ la loro crescita. Ne 2016 il senso comune suggeriva che il koa di 30 anni, nella migliore delle circostanze, non avesse un reale valore economico. Tuttavia, Paniolo ha lavorato con Taylor per soddisfare gli standard di qualità e ha trovato un ottimo legno per chitarra in questi alberi. I proventi di questa vendita hanno permesso al Ranch di costruire nuove recinzioni a prova di cervo e di espandere le loro attività di piantagione e manutenzione di koa in corso sulla loro proprietà. Ora continuano a piantare koa sulla loro proprietà ad un tasso di 10-15 acri all’anno.

Honaunau
Il progetto seguente per Paniolo Tonewoods fu nella zona di Honaunau, su un bosco di proprietà del più grande proprietario terriero privato delle Hawaii. Anche in questo caso, Paniolo Tonewoods ha utilizzato un approccio innovativo introdotto dal Servizio Forestale degli Stati Uniti. Invece di pagare i tronchi o i diritti di raccolta direttamente al proprietario terriero, che è la norma, a Paniolo è stato permesso di tagliare un numero selezionato di alberi e, in cambio, è stato richiesto di finanziare una serie di progetti per il  miglioramento delle foreste. Questi includono nuovi recinti per tenere fuori le pecore selvagge e il bestiame, miglioramento degli spazi antincendio e studi ambientali e archeologici. Ad oggi, ciò ha comportato il reinvestimento di oltre $500.000 nelle foreste di koa di Honaunau. Anche questo progetto continua e si prevede di reinvestire ulteriori $500.000 nei prossimi anni – tutto ciò su terreni che il proprietario terriero non avrebbe altrimenti pianificato di rigenerare e proteggere. Pertanto, altri 1.600 acri di foresta nativa hawaiana vengono migliorati e protetti.

Le Prossime Foreste di Koa di Paniolo
Il 9 marzo 2018, Bob Taylor acquistò 564 acri di pascoli sull’estremità settentrionale dell’Isola Hawaii. Questa terra è ora gestita da Paniolo Tonewoods, che, nel tempo, ricostituerà una foresta nativa hawaiana su terre che erano state adibite al pascolo da almeno 100 anni. Il piano prevede che il Paniolo pianifichi le aree in forte pendenza nella foresta nativa con specie miste e le aree più dolcemente inclinate con koa. A parte una semplice rete stradale e una piccola falegnameria, quando la foresta sara’ matura (a partire da circa 30 anni dopo la semina e cosi continuando per sempre), rimarrà un ambiente relativamente chiuso e si prevede che produca più del doppio del volume di legno di koa che Taylor Guitars utilizza oggi attraverso il taglio selettivo degli alberi.

È importante capire che ad oggi la Paniolo stessa ha piantato solo pochi alberi. Il nostro lavoro fino ad oggi ha permesso ad altri di farlo e ha protetto 1.600 acri di foresta nativa a Honaunau (non un risultato insignificante), ma, essendo operativa da soli quattro anni, Paniolo e’ solo all’inizio del suo lavoro. Nel 2020 inizieremo a coltivare la proprietà di Bob, ma per farlo nel modo giusto ci vuole tempo. Mentre andiamo avanti, Paniolo continuerà la sua ricerca sulla coltivazione di alberi con una qualità superiore e, si spera, aumenterà gli sforzi per il miglioramento delle sementi e delle piante in tutto lo stato.

Scott Paul e’ il direttore della Natural Resource Sustainability di Taylor